MANTOVA – MA N TOVA Conferma della condanna di primo grado a 20 anni di reclusione per associazione mafiosa. Questa la richiesta avanzata in requisitoria dal pubblico ministero della Dda di Bologna Beatrice Ronchi nei confronti di Sal – vatore Grande Aracri, il 42enne di Brescello, nipote del boss di Cutro Nicolino, imputato nel processo d’appello con rito abbreviato scaturito dall’inchiesta “Grimilde”, circa le infiltrazioni ‘ndranghe – tiste al nord. Una seduta, quella dell’altro giorno nell’aula bunker del carcere bolognese della Dozza, segnata dapprima dall’arringa difensiva dell’av – vocato Giuseppe Migale Ranieri e quindi dalle repliche del procuratore generale della Corte d’Appello Lucia Musti.
Per la pubblica accusa dunque Grande Aracri figurerebbe nella cosca emiliana con un ruolo di vertice mentre i reati-fine (o reati-scopo, realizzati in costanza di un accordo criminoso di matrice associativa) a lui contestati, sarebbero comprovati alla luce di un corposo compendio probatorio. Ad esempio le dichiarazioni di collaboratori di giustizia appartenenti al sodalizio emiliano (Antonio Valerio, Salvatore Muto e Giuseppe Giglio), alla cosca Grande Aracri di Cutro (S a l va t o re Cortese e Giuseppe Liperoti), alla cosca Trapasso (Mas – simo Colosimo) e alla mafia siciliana (Vito Di Gregorio).
Poi le intercettazioni in diverse fasi temporali (2007, 2011, 2015-2018), la documentazione sequestrata e altri elementi emersi dall’istruttoria. Di contro la difesa ha incentrato la propria arringa contestando la partecipazione del 42enne alla consorteria. «Ci sono tanti elementi a suo discarico. Come intercettazioni ignorate dal giudice di primo grado, nonché il fatto che il mio assistito, prima di “Grimilde”, non sia mai stato toccato dalle inchieste, neppure da “Aemilia”». Il legale ha quindi cercato di smontare i pentiti: «Ciò che dicono non è stato riscontrato, ma confessato dallo stesso Grande Aracri. In ogni caso, non lo inquadrano come capo del sodalizio, ma come soggetto a disposizione. Poi manca la prova dello stabile contributo alla consorteria, contemplato dalla Cassazione».
La difesa si è infine soffermata sulle intestazioni fittizie con l’aggravante mafiosa: «Non è provata la consapevolezza dei soggetti terzi di voler agevolare la cosca. Al limite, se c’era una persona agevolata, era Grande Aracri, ma non il sodalizio». Sull’estorsione alla riseria Roncaia di Castelbelforte, il difensore ha rimarcato: «Lui non compare, non ci sono intercettazioni.
Non emerge il ruolo direttivo e non si tratta neppure di un’estorsione». Le richieste finali sono state l’assoluzione dal 416 bis, in subordine la riqualificazione da capo promotore a partecipe. Per i reati-fine, a seconda delle singole accuse, la difesa ha domandato l’assoluzione, il minimo della pena e l’esclusione dell’ag – gravante mafiosa, che se accolta potrebbe alla preiscrizione di diversi reati contestati. Oltre alle attenuanti generiche.