PARMA Vola, svetta, si inabissa per poi riaffiorare, plastica, ardita, mai eccessiva. E pesca dall’orchestra – un’orchestra Toscanini in piena forma, fiati sornioni e archi che, da puntualmente anonimi, si fanno via via più vaporosi e caratterizzati – fraseggi preziosi che fila e ordisce in un’affascinante trama narrativa, in perfetta intesa con il palco. Corre veloce la bacchetta di Diego Ceretta, con il fiato dei suoi ventisette anni, giovane e già così capace di dialogare con voce ferma con l’intimità della pagina, interrogandola sul vivo delle sue ammissioni ma non rinunciando ad avventurarsi nei coni d’ombra delle sue (tante, apparenti) omissioni. Scandaglia e stana i silenzi, le reticenze, toglie la patina della maniera per tirare a lucido il capolavoro nella sua luce più leggera, diretta, pungente, quella che, a pensarci bene, abita già nell’ossimoro della sua definizione: dramma comico. A Parma, il rossiniano Barbiere di Siviglia, tra le mani di questo talento cresciuto, prima da allievo e poi da assistente, alla prestigiosa bottega di Daniele Gatti, è uno spettacolo di misura e di consapevole bellezza degno del suo mentore, ma soprattutto è il limpido biglietto da visita di un nome da segnarsi in agenda. In scena, a fare da efficace contraltare ad una conduzione irrorata di freschezza, è l’esperienza di Pier Luigi Pizzi, che di anni ne ha 93: architetture quasi canoviane, ispirate all’eterno adagio di sobrietà per cui less is more. Due palazzi dai balconi speculari, facciate bianche e finiture di pregio. Una fontana, qualche pianta di arancio, la luce intensa della notte che lascia spazio all’alba andalusa, a ricordare che siamo a Siviglia. E, atto dopo atto, ecco la scena che si sposta, e con essa l’occhio dello spettatore, sempre più coinvolto nella quotidianità dei personaggi, sempre più smaliziato, facendo scorrere l’immaginaria cinepresa dall’esterno all’interno dell’abitazione, fino alle stanze in cui il vecchio don Bartolo vive e convive con Rosina, dove trama un amore che è possesso e, soprattutto, dove sarà gabbato da un amore che, al contrario, scaltra, irresistibile vitalità, a morale di una sottile parabola in cui il vecchio viene soppiantato dal nuovo. Pochi ingredienti, tanto mestiere, l’estro e il coraggio di generazioni a confronto capaci di parlarsi e di contaminarsi a vicenda. Ecco le ragioni per le quali non mancare al Barbiere di Siviglia che, venerdì 12, con repliche fino al prossimo 20 gennaio, ha inaugurato la Stagione Lirica del Teatro Regio. Fresche e perfettamente scolpite addosso alle indicazioni rossiniane anche le voci: innanzitutto quella di Andrzej Filończyk, Figaro dalla presenza scenica irresistibile, esuberante ma mai spaccone, caratterista raffinato e insinuante. Un profilo sottilmente sfaccettato, il suo, capace di condurre l’ascoltatore nel suo mondo di servitore, mondo in cui ha imparato a muoversi ad arte, all’ombra dei signori. Accanto a lui, il Conte d’Almaviva di un intenso Maxim Mironov, linea di canto ben rifinita a disegnare un fraseggio di naturale nobiltà, perfetto contraltare al suo più guascone compare. A completare il cast di voci maschili, il don Bartolo statuario di Marco Filippo Romano, padrone assoluto di un ruolo in cui si condensa il bersaglio dell’ironia rossiniana, ma anche la sua mirabolante macchina parossistica, e il don Basilio di gran lusso, servito sul piatto di una vocalità autorevole, di Roberto Tagliavini. Non meno interessanti le voci femminili. Su tutte, Maria Kataeva, perfettamente a suo agio negli abiti della bella Rosina, delineata con smalto e una punta di imprescindibile cinismo, affiancata dalla sagace Berta di Licia Piermatteo, giunta all’ultimo a sostituire un’indisposta Elena Zilio. Nella generale under 30 di domenica 7 gennaio, ad applaudire, con un vero e proprio trionfo, è un Regio al tutto esaurito: ragazzi sorridenti, attenti, partecipi negli applausi scroscianti e, ancor prima, nel silenzio sempre teso, vibrante di emozione. Un incanto che conforta e invita a sperare. Ma anche a riflettere, prima di intonare il De Profundis e darci per vinti. Siamo davvero sicuri che l’opera lirica, che la musica colta, siano cibo per il solo pubblico agé? Non sarebbe forse più onesto iniziare ad ammettere che, a fare da filtro è, più spesso, il costo di biglietti non sempre accessibili a cuor leggero? Forse, una riflessione a livello nazionale sarebbe da aprire. Qualcuno, a Parma, l’ha già fatto. E, a quanto pare, chi è pronto a raccogliere il testimone dell’ultimo nato nel Patrimonio Immateriale dell’Umanità c’è già. Non facciamolo scappare. Se servisse, anche ravvivando lo spettacolo con soluzioni ad hoc, non banali scorciatoie ma, più precisamente, degni assaggi di ciò che attende al di là del sipario, come la superba operazione firmata, nel foyer del teatro, dai tre formidabili mattatori del Teatro Necessario, musicisti, attori, caratteristi capaci, con qualche colpo di spazzola e un carosello di strumenti suonati con mirabolante maestria, come veri giocolieri, di accendere i riflettori su un mondo magico ma anche fragile.
Elide Bergamaschi