VILLIMPENTA – Un’amicizia forte come la vita, che si lega alla Seconda guerra mondiale e in particolare alla tragica situazione in cui versavano gli abitanti della provincia di Littoria. È quella di Alessandro D’Aprano detto Sandro, classe ’35, laziale di Latina, e di Francesco Pizzoli detto Franco, classe ’36, lombardo di Mantova e più precisamente di Villimpenta, entrambi custodi di un passato che racconta senza enfasi, ma con la cura e la lucidità di chi vuole preservarne la memoria. La narrazione riporta le lancette dell’orologio al 2 gennaio del 1944, anche se in realtà bisognerebbe spostarle al 26 dicembre del 1943, giorno del secondo rastrellamento che costrinse Alessandro D’Aprano – insieme alla madre, alla nonna e ai suoi 5 fratelli (il più grande aveva 12 anni, il più piccolo 5 mesi) – a salire su uno dei treni che dalla stazione di Priverno Fossanova li avrebbe condotti, come tanti altri sfollati, nell’Italia Settentrionale in ottemperanza delle disposizioni della Repubblica sociale italiana e del Comando militare tedesco per trasferire i civili dalle zone di prima linea in luoghi dove potevano trovare assistenza. La meta non era data a sapersi, e questo li faceva vivere nell’ansia del domani. Doverosa una premessa: nel raggruppare i “rastrellati” i tedeschi non tenevano conto della composizione dei nuclei familiari e del grado di parentela. «Molte famiglie», ricorda il signor Alessandro, «erano scompaginate, con i figli da una parte e magari i genitori dall’altra. E questo in loro non faceva che accentuare il dolore e la disperazione per la crudele separazione». Il viaggio sembra infinito, e non è certo confortevole. A bordo non vi sono i servizi igienici, manca l’acqua e l’illuminazione. Pur essendo piccolo, D’Aprano conserva in modo nitido il ricordo di quei giorni chiusi nei convogli di bestiame riempiti di paglia per consentire loro di distendersi sul pianale: «Cibo non ne avevamo, mentre per filtrare un po’ di luce si doveva tenere socchiuso il portellone del vagone, ma così facendo si intensificavano gli spifferi freddo. Qualcuno accendeva dei fuochi di fortuna dentro i secchi e le bacinelle per ottenere della brace e riscaldarsi le mani e per fornire un po’ di tepore a bambini e anziani». Il viaggio di Alessandro e della sua famiglia procede verso il Nord, non senza diverse interruzioni non previste dovute ai bombardamenti. Le destinazioni assegnate agli sfollati erano prevalentemente dislocate in Emilia Romagna, Lombardia, Veneto e Friuli, ove erano predisposte le strutture di accoglienza. Il “suo” treno si ferma a Mantova. È il 2 gennaio del 1944. «Appena aprimmo il portellone ricordo che c’erano almeno 20 centimetri di neve e che davanti alla stazione diverse corriere ci stavano aspettando. Io e i miei familiari salimmo su quella diretta a Villimpenta, uno dei Comuni che si erano resi disponibili ad ospitare le persone nella nostra situazione». Percorsi i venti chilometri che separano il capoluogo dal paesino al confine con il Veronese, gli sfollati vengono accolti dal parroco don Giuseppe Viviani e dal curato don Guido, i quali durante la messa avevano chiesto ai cittadini se fossero disponibili ad ospitare gli sfollati del centro Italia. «Furono subito tutti molto gentili, ma ancora non capivamo bene quello che stava succedendo. Ci accompagnarono in un edificio, non so se del comune o della parrocchia, dove i volontari avevano preparato la cena, ma nonostante fossero cinque giorni che non mangiavo, riuscii solo a mandare giù tre cucchiai di brodo. La prima notte io e uno dei miei fratelli dormimmo nelle scuole, che allora si trovavano in via Virgiliana, gli altri vennero invece trasferiti assieme a mamma e nonna in quelle di Pradello». Ma se per loro la permanenza a Villimpenta durerà fino al ’45 – anno in cui fecero ritorno a Castelforte – per Alessandro proseguì fino all’ottobre del 1949, quando il padre lo venne a prendere per riportarlo nella terra natia. «In quei quasi sei anni trovai ospitalità nella casetta di via Marconi dai coniugi Dante Rossi e Velia Cagnata, che mi fecero sentire come a casa». A fianco abitava Franco Pizzoli, di un anno più giovane, insieme a mamma Ida Fiorini e al papà Doride. Inevitabile che tra i due nascesse un’amicizia. «Eravamo a scuola insieme, al piano terra dell’attuale municipio – interviene il signor Franco -. Terminati i compiti nel pomeriggio si usciva per giocare a calcio (entrambi siamo tifosi del Grande Torino e abbiamo vissuto la tragedia aerea di Superga del 4 maggio 1949, nella quale l’intera squadra perse la vita, ndr), ma spesso andavamo a pescare oppure al teatro-cinema “Cavallero”, che oggi purtroppo non c’è più, a vedere i primi western o i film di Tarzan. In alternativa giocavamo a Scianco o con le “marmore”: insomma, bastava poco per divertirsi». Ogni anno si rinnova la visita di Sandro dall’amico Franco, fatta eccezione per gli anni della pandemia. Ad accompagnarlo la secondogenita Veronica, divenuta a sua volta amica di Elena, la figlia di Franco. Una storia in cui, man mano che ti addentri nel racconto dei protagonisti, scopri un mondo in cui germogliano sentimenti forti, ma tra questi è l’amicizia e la voglia di non arrendersi mai a prendere il sopravvento.
Matteo Vincenzi