“I Lombardi alla Prima Crociata” ha aperto il Festival Verdi 2023

PARMA È la musica ad affiorare dalla scena e a prendersela tutta fino a fagocitarla, nota dopo nota, plastica manifestazione di una vita che esiste e resiste, là dove la storia vuole la distruzione, la negazione. Pier Luigi Pizzi, nella sua lettura de I Lombardi alla Prima Crociata, titolo con cui il Festival Verdi ha aperto il suo cartellone targato 2023, vuole che quel suono lontano che accompagna la conversione di Oronte abbia la sensuale morbidezza del violino di Micaela Costea non come astratto alito di bellezza lontana ma come presenza fisica, tattile, a lato della scena, a firmare l’ampio cammeo che, in una sorta di ispirato esercizio di stile à la manière primottocentesca, il compositore dedica allo strumento. E, fedele alla stessa linea, porta in secondo piano l’ambientazione, che da avvolgente si fa bidimensionale, sfuggente, quasi interamente affidata a videoproiezioni nelle quali – in una carrellata che, se da un lato consente di visualizzare senza troppi sforzi le varie cornici dell’azione, dall’altro ne risolve con qualche sommarietà di troppo le implicazioni – la facciata della Basilica di S. Ambrogio cede presto il passo alla valle di Giosafat fino alla vista, meta o miraggio, dell’agognata Gerusalemme. La scelta di una sostanziale monocromia, giocata tra i toni del nero e dell’antracite per le scene notturne e per i costumi dei Crociati, declinanti poi nel seppia del deserto, trova invece nei costumi delle donne dell’harem così come dei soldati turchi le tinte (squillanti nella scelta cromatica, anonime nella caratterizzazione) di un mondo tutto da scoprire, tanto crudele quanto sorprendentemente prezioso. Dramma di passaggio, scritto nel pieno degli anni di galera da un giovane Verdi ancora sotto gli effetti del successo riscosso da Nabucco, per molto tempo considerato una sorta di prosecuzione in chiave squisitamente italica dell’epopea del popolo babilonese ma, in realtà, esito con ben altri risvolti e ben spiccate autonomie rispetto alla più risolta matrice, per certi versi “sperimentale” nelle soluzioni drammaturgiche, quello dei Lombardi è un polpettone storico in salsa padana che ben presto guarda lontano, incrociando i destini di due fedi per proclamare, in tempi non sospetti, l’inutilità della guerra, invisa a Dio per primo. Nella visione del regista, scenografo e costumista, tutto ha origine da uno squarcio alla Lucio Fontana che una Giselda – l’ottima Lidia Fridman, a suo agio per incisività e personalità in uno dei ruoli più pericolosi dell’intero catalogo verdiano – imprime al candido telo del fondale. Forse, l’insinuarsi sottile della carità, della misericordia, nel desolato nulla in cui le spade sono impugnate al contrario, come croci da innalzare, a costo di uccidere, o morire. Nel comparto maschile a giganteggiare è da subito un Pertusi di straordinaria espressività e credibilità nelle sfaccettate pieghe richieste: il suo Pagano viene scolpito con pennino fine e umanissimo, dal dardeggiare focoso e vendicativo alla magnifica sublimazione delle ore estreme. Poco comprensibile, però, una volta morto, il suo rialzarsi e confluire nel coro finale. Accanto a lui, Antonio Poli ha lo squillo e la baldanza che ben configurano il suo Oronte, perfetto nel contrasto con la vocalità marmorea e al tempo raffinata di Antonio Corianò come Arvino. In buca, la Filarmonica Toscanini, guidata con braccio asciutto e complessivamente efficace da un infortunato Francesco Lanzillotta, costretto a dirigere su sedia a rotelle a seguito di un incidente, risolve la complessa scrittura con la consueta sicurezza. Sul palco, grandioso è il coro preparato da Martino Faggiani, vero e proprio io collettivo che Verdi sbalza fuori dalla ruvida quanto avvincente grana strumentale per elevarlo a tirante segreto dell’opera. Applausi e vivo successo per tutti.

Elide Bergamaschi