MANTOVA Stiamo troppo a chattare e a navigare, a commentare e a postare? Dipende dalle categorie e dal tempo. Ma in generale passa l’immagine che ormai siamo quasi tutti ingabbiati nell’ossessione digitale e passiamo le nostre ore tra Whatsap e Facebook, tra Instagram e Google Maps e via postando.
Non c’è categoria esente. Persino i preti. Ormai ci siamo abituati al “don” e al “monsignore” che postano pezzi e foto, che commentano e condividono che registrano e fanno selfie. Ma pare che da qualche parte si esageri. L’arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi, l’altro giorno non è andato per il sottile : “A qualcuno che ci passa troppo tempo o commenta i fatti di politica taglierei le mani”. Ovviamente è una immagine iperbolica, diciamo una efficace metafora.
Ma che il capo della Chiesa bolognese, che è riconosciuto come uno dei vescovi più progressisti ed aperti dell’attuale intera compagine episcopale italiana, arrivi ad ammonire i suoi sacerdoti in questo modo la dice lunga. C’è un uso, anche nel clero, talvolta senza misura dei social network. Ovviamente succede a Bologna come a Firenze, succede a Mantova come a Cosenza. Anche i preti sono uomini e tutto mondo è paese, giusto per usare due modi di dire francamente universali.
Le esagerazioni social-digitali sono in tutte le categorie dai medici ai professori, dai politici ai giornalisti, dagli architetti ai piloti ma forse per i sacerdoti fa più impressione, forse per specifica percezione culturale. Si pensa e si dice: un prete dovrebbe essere più sobrio in tutto. Anche nel digitale.
Fatto sta che Zuppi ha invocato una quaresima social digitale per quei preti che passano più tempo in Rete che a parlare con i loro parrocchiani. Direi che questa invocata “quaresima social digitale” potrebbe essere benissimo estesa anche a tutti noi, in qualche maniera social-dipendenti.
Un po’ di astinenza da chat, un po’ di digiuno da bacheche e like di certo non ci farebbero male. Come digiuno e astinenza a tavola, e dalla tavola. Non a caso c’è un dibattito molto acceso e aperto, anche di carattere pedagogico e non solo comportamentale, sul divieto di telefonini in classe. C’è chi dice che è meglio lasciarli fuori sia per professori che per gli studenti, c’è chi dice che ormai il telefonino è un mezzo per studiare e ricercare, sia tra studenti sia tra professori.
Ovviamente la salvezza sta nel giusto mezzo (est modus in rebus) perché se chatti e guardi video per tutta la lezione non va bene, se whatsappi e instagrammi a tutte le ore perdi solo tempo e non impari. Dovremmo percepire in certe occasioni il valore di “ausilio” dello smartphone e non di guida, di assistenza e non di dipendenza.
A parte le categorie professionali che sono obbligate per lavoro a stare incollate ad uno schermo, speriamo con pausa almeno ogni due ore come prescritto e caldamente consigliato, i facoltativi del digitale potrebbero davvero approfittare della stagione di quaresima per fare dei bei fioretti, come si diceva una volta. Pianificarsi un’ora di social network al giorno e non di più, evitare di stare con gli occhi incollati allo schermo a tavola e al cinema, spegnere il cellulare un giorno alla settimana e riempire il vuoto del digitale con il pieno di un libro, cartaceo, con pieghe alle pagine, appunti sottolineature e orecchie da uso e riuso. Almeno provare e vedere l’effetto che fa.
Di sicuro ci guadagnano gli occhi, che non devono fissare sempre uno schermo, e le mani che non devono sempre mutuare la stessa identica impugnatura, la stessa articolazione di scrittura e lo stesso gesto di scrollatura. Guarda come siamo arrivati a scrivere e a parlare.
Il digitale impone anche un tema di memoria. E riguarda chi, come tanti di noi, invece di vivere un evento lo fotografa, invece di ammirare a pieni occhi inquadri a occhi socchiusi. Ci sono studi psicologici, diffusi anche di recente, che spiegano come la nostra ossessione di fotografare tutto quello che vediamo cambia la nostra modalità di ricordare gli eventi. Non c’è dubbio che dopo una certa età sentiamo il bisogno di ricorrere a “memorie esterne” e il telefonino è un buon rifugio, ma ricordare solo attraverso quelle foto può averci fatto dimenticare i suoni, le voci, i profumi, le sensazioni di contesto che quell’evento -che siamo stati intenti solo a fotografare- poteva produrre.
Insomma anche qui: meglio guardare e vivere in diretta, cioè fotografare di testa, che vivere in differita, cioè fotografare di smart. Poi ci penserà il cervello a selezionare ciò che davvero valeva la pena ricordare e ciò che sarebbe andato comunque nel cestino cerebrale. Buona quaresima digitale a tutti.
Fabrizio Binacchi