Mantova “Ora noi o risorgiamo come squadra o cederemo un centimetro alla volta. Dovete guardare il compagno che avete accanto, guardarlo negli occhi, io scommetto che vedrete un uomo determinato a guadagnare terreno con voi, che vi troverete un uomo che si sacrificherà volentieri per questa squadra, consapevole del fatto che quando sarà il momento voi farete lo stesso per lui. Questo è essere una squadra signori miei”. Questa citazione, tratta dal film “Ogni maledetta domenica”, interpretata dal grande Al Pacino, mito del cinema che non ha bisogno di presentazioni, rappresenta un estratto del famoso discorso motivazionale che, fatto nello spogliatoio, ha portato, nel film, la squadra alla vittoria. Un’altra persona che non ha bisogno di presentazioni, e che sa bene quanto le motivazioni possano incidere sulla prestazione dei giocatori, è Andrea Moretti, classe 1972, mantovano, ex tallonatore e ora allenatore degli avanti della Nazionale italiana di rugby. La squadra è appena tornata dai Mondiali dopo essere stata eliminata, e questo è il momento delle riflessioni e dei discorsi che serviranno a fortificare lo spirito di squadra, nel tentativo di realizzare un gioco più incisivo in vista delle prossime sfide. Moretti è una colonna portante della Nazionale e la sua storia, come le sue parole, sono importanti per capire quanto i giocatori in campo possano fare affidamento su di lui.
Andrea, partiamo dai tuoi inizi. Hai sempre sognato il rugby o hai praticato altri sport?
«Fino all’età di undici anni ho fatto nuoto e poi ho iniziato a fare calcio. Successivamente, grazie al mio prof di educazione fisica di allora, sono approdato al rugby, a Mantova, a 14 anni. Da quel momento è sbocciato l’amore. In seguito sono passato in prima squadra: al Viadana (A2) e poi al Petrarca dove ho giocato in serie A1. Una volta terminata la scuola e il servizio militare, ho accettato di fare un’esperienza all’estero, in Nuova Zelanda negli anni 1996/1997».
Quando sei approdato in Nazionale, che emozioni hai provato?
«A settembre avevo iniziato la stagione al Petrarca e a novembre ho disputato con gli Azzurri la Coppa Latina. Ero appena tornato dalla Nuova Zelanda dove avevo acquisito un modo di giocare che mi rendeva un atleta molto mobile. Avevo una buona tecnica individuale, ero un tallonatore dinamico. Giocare con la Nazionale è stato emozionante, perché potevo condividere il mio tempo con i giocatori che fino ad allora avevo guardato in tv. Conservo ancora la maglia del mio esordio come un cimelio prezioso».
Veniamo al presente, come ti è sembrata l’Italia ai Mondiali in Francia?
«Prima di tutto, l’obiettivo di qualificarci ai successivi Mondiali è stato raggiunto. Poi si può tranquillamente affermare che la partita contro la Nuova Zelanda è quella che è andata peggio di tutte. C’era la volontà di impostare un gioco che esprimesse la nostra identità, però, ad un certo punto, nella mente dei giocatori si è affermata una sensazione di impotenza. Dopo le tre mete di fila che abbiamo subito, abbiamo perso fiducia. La sconfitta con la Francia è stata determinata anche da questo precedente. I ragazzi erano stanchi fisicamente, ma andava recuperata anche la testa, la componente psicologica. E’ una squadra, la nostra, che ha attitudine al combattimento, ma ha anche momenti di fragilità».
Cosa serve a questa Nazionale per vincere?
«Innanzitutto va riconosciuta la superiorità della Francia e degli All Blacks. Detto questo, credo che in questi ultimi tre anni gli Azzurri siano maturati molto, ma mancano ancora di un po’ di esperienza. Questa è una squadra veloce, occorre migliorare la preparazione fisica, l’intensità e l’efficacia degli impatti. Credo manchi la fisicità che permette di essere maggiormente consistenti».
Cambierà anche l’allenatore. Cosa potrà fare?
«Sì, Gonzalo Quesada è molto preciso e pragmatico, un tecnico che sa curare il gruppo. E’ giovane e potrà contare su chi, come me, è lì da tempo. Metteremo a disposizione la nostra esperienza e siamo pronti a dargli una mano».
Il tuo futuro cosa prevede?
«Per ora posso dire che ho un contratto con la Nazionale fino a giugno 2024, anche se mi piacerebbe continuare questa esperienza anche nel prossimo ciclo, ovvero fino al 2027. Del resto conosco bene i ragazzi che ho avuto in buona parte in Under 20 e in Accademia, avendo seguito il loro percorso di crescita. Importante è stata anche l’esperienza dei Mondiali per la loro maturazione. Dopo il 2027 sarei anche disponibile a fare un’esperienza all’estero. Si tratterà poi di valutare la proposta e il progetto».
Il campionato italiano sarà ridotto a otto squadre. Ti sembra una buona decisione?
«Il ridurre a otto in sé non è un male. Pensare a otto squadre potrebbe significare il riuscire a concentrare giocatori di qualità negli otto club previsti. Ciò che importa è trovare delle soluzioni per creare altre occasioni e attività per giocare di più. Il club di riferimento di una città dovrebbe poi lavorare con quelli del territorio. Sarà occasione per creare sinergie con le istituzioni e con la componente sociale in modo da diventare punti di riferimento per la popolazione. Il rugby è aggregazione e i club, le strutture, dovrebbero vivere sette giorni su sette».
Ti chiedo di azzardare un pronostico. Chi vincerà il Mondiale?
«Il Sudafrica è il favorito e l’unica incognita che potrebbe giocargli a sfavore è la componente psicologica. Hanno speso tantissime energie mentali per affrontare la Francia e questo poterebbe incidere sulla loro prestazione. Nonostante questo, penso, vincerà».
Dario Anzola