MANTOVA L’immancabile sciopero dei treni dei primi giorni di settembre rende il viaggio elettrico ma non riesce a sabotare il mio approdo a Mantova. Per la prima volta arrivo di mercoledì, il giorno dell’inaugurazione del Festivaletteratura, e mi emoziono nell’atmosfera galvanizzante degli inizi. Il crepuscolo serpeggia per le strade mentre mi affretto a raggiungere la Basilica di Santa Barbara, superando gruppetti di persone che si dirigono verso il luogo dell’incontro. Una volta varcata la soglia della chiesa, vedo Mircea Cartarescu con il suo traduttore Bruno Mazzoni seduti al tavolo sistemato sotto l’altare e illuminati da una luce bianca e forte. Probabilmente non esiste una cornice migliore per la conversazione messianica che ci attende, perché per Cartarescu la scrittura è una questione di fede, ma anche di magia, di rivelazione e immaginazione sconfinate, di meraviglia infantile e poetica. Non ci sono confini tra poesia e prosa, non ce ne sono nemmeno tra sogno e realtà, i mondi si moltiplicano, proliferano, sono porte che si aprono all’infinito, senza finire mai di scoprire, di andare, di varcare soglie. Siamo semmai noi che abbiamo bisogno di definire, classificare, ridurre tutto a un discorso, a una razionalizzazione, sempre pronti a tenere lontano l’ignoto e la paura che ci provoca, invece di goderci l’emozione straniante delle visioni. I giorni del Festivaletteratura sono costellati di porte che aprono a suggestioni, visioni e impressioni. Qui ci si immerge in un flusso continuo di pensieri, immagini, voci, idee, ritmi, intuizioni che si moltiplicano generando e rimandando ad altre in una germinazione incontrollabile che toglie il fiato. Ci si incontra, sempre di corsa, perché ciascuno sta inseguendo una sua passione, una sua curiosità, assettati di scoprire un nuovo tassello o un diverso giro di volta, in bilico tra il desiderio di riconoscersi e quello di spaesarsi. Forse al Festivaletteratura si è tutti un po’ più simili al viandante che Galimberti porta sul palco delineandone l’etica con parole nette che sprigionano la concreta necessità di abbandonare le nostre solide e miopi certezze, i nostri tempi e i nostri modi disumani e provare ad assumere il passo di un viandante, qualcuno che non ha una meta, non ha nemmeno un percorso ma lo deve inventare, lo deve sperimentare. È un’etica della meraviglia, come se questo tempo che stiamo vivendo ci avesse spogliato della bellezza e allora noi tornassimo qui, a Mantova, a interrogarci se è possibile e da dove si può partire per infondere stupore alle nostre vite. Siamo il tempo, siamo i giorni, le ore che viviamo, ma siamo anche le scelte che facciamo in quel tempo. Tuttavia, su quelle scelte non riflettiamo abbastanza, non ci chiediamo con sufficiente serietà dov’è il nostro posto, fino a che punto possiamo sentirci al di sopra e al di fuori di quello che ci circonda. Parliamo di natura come se non fossimo noi stessi un fenomeno naturale. Dalle piazze, dalle chiese, dai teatri risuonano e si inseguono le parole limite, movimento, fragilità, paura, bosco, pianeta, poesia. Dovunque ci voltiamo, intuiamo un confine. Confini fisici, psichici, ambientali, di genere, geografici. Si può sconfinare, è concesso andare ma soprattutto è possibile tornare, ci domandiamo con Gazmend Kapplani. Noi che abbiamo abbandonato le nostre rispettive terre, la Bosnia e l’Albania, noi che abbiamo ibridato le nostre lingue fino ad amalgamare mondi e suoni che non si erano mai parlati così da vicino. Mi viene in mente che i ritorni ci risultano invitanti perché sono un limite contro il quale ci scontriamo. Li corteggiamo, li immaginiamo, infine però ne intuiamo l’impossibilità. Non è soltanto un luogo quello dove vogliamo tornare, ma è un tempo e quel tempo è irrimediabilmente passato, non lo si può più ricreare. O forse sì, forse lo scrivere è proprio un tentativo di salvare il tempo perduto.Ecco allora che proviamo a immaginarci dove si rifugiano le lingue nelle quali siamo nati, se nei suoi sedimenti il linguaggio conserva le memorie di quel che siamo stati o che lingua parla lo straniero che ci portiamo dentro quando ci appare nei sogni. Quest’anno il Festivaletteratura ridisegna una sua particolare geografia, mondi lontani salgono sul palco e nella luce di fine estate mi sembra che l’altrove non sia mai stato così a portata di mano. L’America Latina, l’Africa, l’Asia, ma soprattutto l’Europa dell’Est che quest’anno bussa in maniera incessante alle porte dell’Occidente per dire che siamo tutti coinvolti allo stesso modo. In un vorticoso giro del mondo in cinque giorni scopriamo che in fondo il confine è un luogo bellissimo perché è nella terra di confine che ci incontriamo noi, tutti uomini e donne di frontiera. E che visto da qui ogni luogo è vicino.