“Così fan tutte” del Ponchielli di Cremona, piccolo capolavoro di essenzialità e di sottrazione

CREMONA Due letti divisi da uno specchio, alcune sedie attorno. Sul fondo, una grande finestra con le ante affacciate sul mare di Napoli. All’occorrenza, una nuda altalena calata dall’alto per ricreare, in nuce, l’atmosfera di un giardino interno, luogo di pensieri birichini e di allegre tresche. Senza nulla aggiungere alla datata formula realizzata per il Teatro San Carlo, la regia di Mario Martone ripresa da Raffaele di Florio – scene di Sergio Tramonti, costumi Vera Marzot (ripresi da Rossana Gea Cavallo) e luci di Pasquale Mari (riprese da Gianni Bertoli) – per il Così fan tutte che, lo scorso week end, faceva tappa al Ponchielli di Cremona si confermava un perfetto meccanismo ad orologeria, piccolo capolavoro di essenzialità e di sottrazione. Una pedana leggermente aggettante sulla buca e ampliata ai lati da corridoi che la sporgevano fino ai palchetti, ad un passo dalla platea, abbracciava l’orchestra e, al tempo stesso, se ne lasciava soggiogare. Lì, a perfetto contrappunto alla componente visiva, era la conduzione di Federico Maria Sardelli a restituire, con pari aristocrazia e linearità, la complessa anima del teatro mozartiano. Da fine tessitore di trame barocche, il direttore toscano conduceva pubblico e interpreti nel cuore pulsante, dichiaratamente settecentesco, dell’opera, in un processo di spoliazione delle calcificate consuetudini esecutive che snudava, nella sua adamantina bellezza, l’artificio di una scrittura esile e micidiale, miracolosa nel suo trompe l’oeil che, sul perenne filo del rasoio, si serve di geometrie levigate per condurre, in realtà, in un autentico labirinto. Niente eccessi, niente fumi romantici. La temperatura riportata ad una diurna narrazione, ad un conversare trasparente dalla cui filigrana affiorava, sfrontato e bugiardo, l’inafferrabile gioco di specchi e di maschere che regge la vicenda, e forse la vita. Un lavoro di cesello che si coglieva, in misura via via crescente, nel vaporoso disegno degli archi, nel punteggiante commento dei fiati, sornioni, nella tenuta di tempi sempre stringati ma mai bruschi, ripuliti da isterismi e da spigoli troppo vivi. Il Settecento promesso dal Maestro nelle note di sala? Eccolo. Audace senza caricature, annidato in un’orchestra che, di questo gioco delle parti, era al tempo spettatore divertito e narratore onnisciente, complice accondiscendente di universali, umanissime debolezze. Rinunciando dichiaratamente a qualche applauso a scena aperta, a qualche facile scorciatoia seduttiva, Sardelli dava alla valorosa compagine de I Pomeriggi Musicali e al coro di OperaLombardia, preparato efficacemente da Diego Maccagnola, la vaporosità e l’impalpabilità di un tessuto leggero, duttilissimo, capace di ricreare, in una manciata di battute, le onomatopee della natura – il venticello che entra nella stanza delle sorelle, il gioco delle onde mosse dalla brezza, il brivido della fanfara militare in lontananza – così come quelle del cuore, con i sospiri e gli ammiccamenti che, nei punti salienti, si dileguavano in altrettanto eloquenti silenzi. “Un gioco di società”, secondo Georg Bernard Shaw, questo quartetto di amanti che, con la complicità ineludibile di Da Ponte, Mozart eleva a cinico saggio sull’umanità. Sotto la pelle del passatempo ardito abita un gioco mortale a cui non basta l’ambiguo finale di un cielo ormai rasserenato a togliere di dosso la patina di amarezza e di disincanto che rimarrà lì, ben oltre il saluto finale degli amanti, ora ricomposti nell’antico ordine, dopo essersi traditi ed aver conosciuto, nel senso di esperito, l’inaffidabilità propria e altrui. Occorrono nervi saldi, e sguardo lungo, capace di vedere oltre le nebbie delle passioni, oltre i fumi dell’ira e gli ottenebramenti del sangue che pulsa forte, per non lasciarsi travolgere da quella folle giostra di vorace irrequietezza che è la vita. Per questo, le rispettive linee di Martone e di Sardelli – lucidi, distanti quanto basta per evitare di farsi risucchiare dal gorgo – davano alla vicenda mozartiana la giusta temperatura, prestando la voce alle corde del comico e del drammatico, dello zuccherino e dell’amaro. Una plasticità che, in scena, le voci, a partire da quelle maschili, perfettamente incastonate nello spirito della vicenda – con il don Alfonso torreggiante, per vocalità, mimica, sagace complicità con la platea, di Matteo Torcaso, perfetto maÎtre à penser di una storia di antieroi e di una mediocrità elevata a condizione universale – raccoglievano all’istante. Nei panni dei protagonisti, il Guglielmo preziosamente cesellato nella fine articolazione di Davide Peroni incontrava l’ingenuo, sognante Ferrando di Pietro Adaini. Nel comparto femminile, all’efficace Despina di Cristin Arsenova seguivano l’audace Dorabella, tratteggiata con bel temperamento da Mara Gaudenzi e la Fiordiligi di Katarina Radovanovic. Ora “la scuola degli amanti” è pronta a riprendere il viaggio per le sue prossime tappe: Brescia (6 e 8 dicembre), Como (13 e 15 dicembre) e Pavia (20 e 22 dicembre).

Elide Bergamaschi