Giovanna d’Arco, applausi generosi e meritatissimi al lussuoso cast

credits Roberto Ricci

PARMA Il febbricitante fremere degli archi, le trombe sibilline, dal fitto del bosco, il senso di attesa che si scioglie nel trionfalismo spiccio e malcerto di una fanfara subito spazzata via dalle folate attonite di una notte senza luna. Ci sono già, in lontananza, il temporale di Rigoletto ma, soprattutto, la foresta di Macbeth, i suoi lampi di follia, l’ombra della premonizione, in questa Giovanna d’Arco di scena fino ad oggi al Regio di Parma, primo titolo “anomalo” di un cartellone per il resto avaro di colpi al cuore, a conti fatti lontano da quell’idea di Parma capitale della musica a cui la città emiliana. Tratto dalla penna visionaria di Schiller, è questo un Verdi sghembo e anche per questo bellissimo, compresso tra gli esiti dei forsennati anni giovanili, continuamente oscillante tra brevi vampate ancora donizettiane e la tentazione, già forte, di una scrittura spiccatamente dritta al punto, stringente fino allo spigolo vivo, di una macchina drammaturgica infallibile anche quando non pienamente compiuta. Andata in scena nel febbraio del 1845, con libretto rigurgitante di astrusi bollori ottocenteschi che portano la firma del fidato Temistocle Solera, Giovanna d’Arco guarda infatti già ai titoli che verranno, a quelle ardite soluzioni di impasto e di impianto sempre più capaci di catturare, nella loro essenza più profonda, profili psicologici complessi, sfaccettati e, non di rado, sdoppiati. Lady Macbeth prima e sopra ogni altro, ma con lei una fitta galleria di umanità tormentate, bipolari, come del resto l’eroina eponima di questo dramma, preda di voci che la portano ad uscire da sé stessa e a mettersi alla testa dell’esercito francese per condurlo dalla disfatta alla vittoria. In questa apertura di Stagione, puntare sull’ennesimo titolo verdiano – con un Festival monografico già dedicato al compositore di casa – non portava con sé solo l’occasione (forse rinviabile ad ottobre) di fare luce su una delle opere più bistrattate e, anche per questo, intriganti, del catalogo delle ventisette, ma anche il valore aggiunto della preziosa lettura impressa sulla vicenda della regia di Emma Dante, ben assecondata dalla buca in cui, a tessere la tela di un dramma disegnato a pennino fine, attento più alle sottigliezze che agli effetti di superficie, era la lucida conduzione di Michele Gamba, alla testa della Filarmonica Toscanini. Se la chiave di accesso era quella di uno scavo nelle pieghe della partitura, alla ricerca di sonorità cameristiche, ovvero di tutto quel mondo implicito, non detto, alluso, di cui Giovanna è pervasa, divisa com’è tra dimensione storico- militare, con la Guerra dei Cent’Anni a fare da incombente cappello perimetrale, e mondo strettamente introspettivo di una ragazza di campagna, forte dello spericolato coraggio degli ingenui, gli echi della guerra finivano per essere rumori di fondo, sovrapposti, a volte sovrastati, dal turbinare, non meno acceso, non meno divorante, delle umane passioni. L’amore, la fedeltà, la gelosia, per diversi aspetti un’allucinata follia; elementi che Gamba pescava dalle profondità dell’orchestra disegnandone un affresco sfaccettato, vòlto a sottolineare, con lucidità e concisione – a costo di rinunciare a qualche facile applauso dal loggione (noi eravamo alla pomeridiana di domenica 26)- lo stridente convivere (e confliggere) di forze avversarie, come lo erano in campo di battaglia Francesi e Inglesi: misticismo e potere, voci divine e presenze demoniache con fattezze di donne-serpente, aspro, spietato incedere della storia. Con noi, contro di noi, senza di noi. All’apertura di sipario, mentre scorreva il rivolo leggero di una marcetta ruffiana, in scena a sfilare era un esercito di derelitti allo sbando. Scemi di guerra, storpi con la spada ora fatta bastone, visi mostruosamente tumefatti. Esseri senza nome, destini a scomparsa che di lì a qualche metro avrebbero ritrovato casa nell’unico luogo possibile, nella terra del camposanto, con le spade, alzate sui loro corpi distesi, a perdita d’occhio, divenute nel frattempo croci per sepolture senza nome. Altri le avrebbero imbracciate, per altre battaglie, per altro sangue. L’eterno perpetuarsi dell’orrore richiede carne da cannone da gettare nella fornace sempre accesa del potere e che sfregia il mondo, facendo anche della fatidica foresta incantata – là nelle viscere ataviche di una Francia pagana dove il Re cerca conforto, dove Giovanna va in ascolto delle voci e dove il padre Giacomo va a spiare la figlia in odore di stregoneria – un luogo magico e sinistro in cui impiccare nemici e traditori, come alludevano i sacchi appesi ai rami delle imponenti querce piovute dal cielo. La scena più bella? Erano due: il muro del pianto, crivellato di proiettili e tappezzato di volti (ostaggi, vittime, dispersi) incrostati di polvere e di oblio, che, ben più delle mura di Reims, ricordava le mille immagini di Gaza, Mariupol, Goma. E quella, altrettanto straziante, del cavallo bianco lanciato in un galoppo impazzito, scomposto, già ferito a morte, già fatto a pezzi ma non ancora vinto, non ancora pronto a soccombere: il cavallo di Giovanna, con lei, come lei, innocente, libero, già ai cancelli della Storia. Per lei, la Pulzella, la morte non era il rogo – Verdi ne avrebbe accesi successivamente – ma in battaglia, con la spada sguainata e l’abito fiammante, avvolta da un manto funebre traboccante di fiori, gli stessi spuntati dalle ferite dei soldati, in un trionfo barocco che era un inno alla vita e, al tempo, dantesco (nel senso della Dante) omaggio alla Sicilia della regista. Applausi generosi e meritatissimi al lussuoso cast: alla Giovanna eroica e sfaccettata di una smagliante Nino Machaidze, vocalità d’acciaio e colore corposo, al Carlo VII inquieto e ambizioso di Luciano Ganci e alla rivelazione Ariunbaatar Ganbaatar, Giacomo marmoreo, custode e forse a sua volta vittima di un mondo arcaico e immobile, senza speranze. Come sempre pienamente all’altezza della situazione il coro del Regio, istruito da Martino Faggiani.
Elide Bergamaschi