CREMONA La pira. Eccola, ancora fumante sui relitti della vampa mortale, torreggiante su un mondo annientato dalla sua potenza divoratrice. Non più fuoco, ma il covar di braci sopite, pronte a riaccendersi. Ai suoi predi, attorno, quel che resta della sua furia imperiosa: una distesa di cenere, il cielo nero color pece, ed ombre di uomini che si aggirano in un paesaggio straziato, postatomico. Da quel cupo mare spuntano ad un tratto le spade, nere anch’esse, latenti, roventi di rancori. Pronte a rimettere i conti in pari, nell’eterno gioco di slancio e distruzione che è la vita. Lo scorso 18 dicembre al Ponchielli di Cremona, da dove ha mosso i primi passi per raggiungere nelle prossime settimane le altre città del circuito lombardo, il Trovatore verdiano trovava nella regia di Roberto Catalano la felice scelta della sottrazione. Niente scene di interni del castello di Aljaferia, niente giardini lussureggianti. Niente scorci dei monti di Biscaglia. Solo il vuoto come cifra perfetta in cui muovere i destini di una delle vicende più intricate e magnetiche del melodramma in cui amore ed infanticidio, vendetta e sacrificio, sogno ed autofdafé sono tenuti insieme dall’ago magnetico del racconto di Azucena. È lei il punto di fuga che sottrae la seconda creatura della trilogia popolare alle maniere del belcanto e dei numeri chiusi. “Quando Azucena non ragiona, ragiona meglio il Dramma”, scrive Verdi al librettista Cammarano, probabilmente memore della prodigiosa riuscita, sei anni prima, con cui aveva cucito la pazzia addosso a Lady Macbeth. Ma la zingara non è folle; il suo profilo è più complesso, ed i suoi silenzi abissali. La sua è una danza allucinata e febbrile, continuamente barcollante tra lampi di lucidità ed oscure velature di incoscienza, torpori che guardano alla morte come alla suprema consolazione. Non c’è redenzione, non c’è vittoria, nemmeno quando ormai condotta al rogo si rivolgerà allo spirito della madre per gridarle di averla finalmente vendicata. Mai come con lei Verdi si era spinto ad esplorare la pietà custodita nel male, e l’innocenza del cuore dei reietti. Eppure – e qui sta l’equilibrismo della resa – Trovatore è anche dramma amoroso, feuilleton da classico triangolo con il soprano conteso tra tenore e baritono, solitamente il buono ed il cattivo di turno. Qui l’ascoltatore si trova avvolto nel rassicurante appagamento di arie e cantabili, cabalette e quel florilegio di virtuosismi cari alla letteratura di primo Ottocento. Là, la tela srotolata dalla gitana ci proietta in un mondo visionario, in un gorgo senza fine in cui ricordi e delirio finiscono con il formare la stessa smarginata sostanza dei pensieri. L’arduo compito di dipanare una così fitta e scivolosa matassa era nelle mani di Jacopo Brusa, giovane bacchetta lombarda alla testa dell’Orchestra de i Pomeriggi Musicali di Milano, che sceglieva la strada di una lettura più interiorizzata che esplicitamente narrativa: tempi ampi, passo misurato sin dall’annuncio iniziale affidato agli ottoni, col risultato di una palpabile fatica ad assecondare con la necessaria guizzante duttilità l’impervia scrittura delle voci. E con il rischio di tenere insieme solo superficialmente le tante, troppe anime di questo dramma in cui, per dirla con Bruno Barilli “la musica si è mangiata il libretto”, di dipingerne le tinte con pennello annacquato. Senza colori puri, senza il pungolo di un implacabile incalzare ritmico, qui incerto, niente vampa, niente Trovatore. Sul palco, il Manrico di Matteo Falcier regalava l’atteso do di petto – piatto forte per loggionisti ed amanti dell’opera corrida – con esuberante spavalderia ma aveva nel tratteggio del figlio devoto il suo profilo più pienamente convincente. Per contro, il rivale Leon Kim, nei panni del Conte di Luna, opponeva una dizione faticosa ed un’espressività piuttosto statica, poco utile a declinare “la tempesta” che l’amore respinto di Leonora gli scatena nel cuore. Al centro della singolar tenzone, Marigona Qerkezi curvava con la sua voce brunita e svettante il suo personaggio da arrendevole a leziosamente combattivo, dosando con generosa mano una tecnica di solida fattura verso una resa convincente anche se più attenta allo smalto che allo scavo. La sua Leonora, applauditissima, sembrava così nuotare più nelle civettuole, acrobatiche acque di un esaltante Rossini che in quelle decisamente più torbide di questo Verdi. Da ultimo, Alessandra Volpe prestava intelligenza e bell’istinto musicale ad un’Azucena riscattata dal macchiettistico ruolo tutto stracci, occhi sbarrati e zingaresco repertorio di stereotipi, ma al tempo stesso ne serviva l’ardua vocalità con mezzi che mostravano le corde delle sue possibilità: suoni rotondi e pieni nel registro grave, subito afoni e slabbrati nell’articolazione nella zona medioacuta. Attorno, Alexey Birkus e Sabrina Sanza completavano il cast con puntualità ed efficacia. Il Coro di OperaLombardia preparato da Diego Maccagnola si confermava presenza affidabile, come da previsioni applaudito a scena aperta all’atteso canto che prepara l’entrata in scena di Azucena, canto di mesta gaiezza e di umana solidarietà nel mondo dei vinti dipinto da Verdi.
Elide Bergamaschi