PIACENZA Gira tutto alla perfezione, in questa Anna Bolena importata dal Lac di Lugano e travasata, con la solita illuminata imprenditorialità fatta di concretezza, competenza e buon gusto, in salsa emiliana. Prima al Valli di Reggio Emilia, lo scorso week end al Municipale di Piacenza (noi eravamo lì, ad assistere ad un autentico, meritatissimo, trionfo), tra qualche giorno al Pavarotti-Freni di Modena. Gira sul suo perno scenico fatto di uno spazio grigio antracite, un po’ reggia un po’ prigione, tra porte a scomparsa e passaggi segreti, corridoi e cunicoli, giardini e patiboli, con il profilo dolente di donna che via via appare, in alto, sul muro esterno, bello ed enigmatico come il volto della luna. Così la sottile regia firmata da Carmelo Rifici vuole il castello di Windsor: un teatro di intrighi e di dolori, universi che per un attimo, l’effimero diaframma di mille pareti basta ad isolare ma che sono destinati a confluire, come un fiume verso la foce, in quell’unico gorgo oscuro che è il destino, ovvero la storia. Spazi che si aprono e che si chiudono ad arte, all’occorrenza, ma anche a tradimento, per complottare, spiare, amare, svelare; spazi in cui dimensione pubblica e privata finiscono per confondersi e annullarsi, spettrali apparizioni che poco o nulla basta a far svanire. E gira magnificamente anche in buca, con la valorosa compagine de I Classicisti (ex Barocchisti) guidati con la solita acuta intelligenza da Diego Fasolis: strumenti antichi per un Donizetti intinto in un inchiostro d’antan, sferzato da un fraseggiare irrequieto e straordinariamente plastico, a tratti secco nell’effetto ma, anche per questo, perfettamente incisivo nel dare a quest’Anna Bolena la tinta drammatica e fosca di un’opera assaporata nel tempo della sua gestazione, in un’Italia ancora da fare, acerba ma capace – a teatro come sulle barricate – di ispirare e di suggerire rivoluzioni. Qui, la scrittura del genio bergamasco trova definitivamente il miracoloso assetto capace di tenere in equilibrio agilità e profondità, guizzo e abisso, maniera mutuata dalla tradizione e visionari squarci di futuro. La bacchetta di Fasolis graffia, stuzzica, disegna la trama donizettiana con la confidenza di chi è abituato a muoversi nel labirinto del barocco; qui, il gioco è per certi versi più semplice, per altri più scivoloso. Il rischio di cadere nello stucchevole o semplicemente nello stinto è altissimo. Ma niente di tutto questo accade. E le quasi quattro ore di recita scivolano via tese, fluide, senza un istante di flessione. Nel ruolo eponimo, Carmela Remigio è un’Anna che conduce l’ascoltatore per mano di stanza in stanza, attraverso le progressive stazioni della sua tragica vicenda di eroina greca; lo fa dando sfoggio ad una vocalità statuaria, capace di piegare, in un crescendo di avvincente efficacia, l’impervia parete da scalare all’urgenza di una sofferenza dignitosa e composta, esplorata nell’ampio arco delle sue multiformi declinazioni, fino alla struggente pagina finale. Non la follia ma un delirante, ebbro, canto del cigno, deciso a non sottrarsi alla fine ormai ineluttabile. Il mi bemolle conclusivo, al termine di una spossante maratona di agilità, trabocchetti e puro scintillio vocale è la zampata di un’interprete autentica. Non da meno, in un duello di donne in cui l’infinito ventaglio di femminili affetti trova piena esaltazione, la Seymour di Arianna Vendittelli sfodera una prova superba: timbro pastosissimo, svettante sicurezza nel disegnare con pennino a punta fine il ritratto di una donna complessa, sanguigna, antagonista per sorte, complice e al tempo vittima di un assassinio, divorata da contrapposte passioni. Pienamente convincente anche lo Smeton di una Paola Giardina in stato di grazia nel dare all’ambigua figura del suo personaggio il non comune dono di una singolare profondità. Nel comparto maschile, brilla di luce propria, per facilità, naturalezza, smalto e volume, il Percy di Ruzil Gatin. Solo qualche consonante e qualche doppia da aggiustare, e poi nulla sarà più da chiedere ad un interprete. Nel ruolo di Enrico VIII, Simone Alberghini entra lentamente; all’inizio appare piuttosto opaco; poi, pagina dopo pagina, la confidenza con il suo personaggio diventa adesione piena: di voce, di testa, di azioni, a firmare una prova senza sbavature. Bravi anche i comprimari, a partire dal raffinato Rochefort di Luigi de Donato. Un applauso particolare al coro Claudio Merulo di Reggio Emilia, istruito da Martino Faggiani. Una cosa sola con orchestra e scena. Un canto sul fiato, insinuante, allusivo. In ombra, sul fondo della scena, una bambina dai capelli rossi siede composta, paziente. Sa che la madre ha vita breve a corte. Nessuna donna sopravvive accanto ad Enrico; lui ama con voracità predatoria, e nell’amare firma la sua condanna, mentre la ruota della fortuna gira inesorabile, insieme alla volta del cielo all’occhio di chi guarda. Quella bambina lo sa. Guarda con dolce indulgenza anche alla sfortunata Seymour, prossima designata, mentre la madre offre fiera la testa al patibolo. E aspetta il suo turno. È Elisabetta, futura regina.
Elide Bergamaschi