PARMA Sono sopravvissuti ad un mondo ormai estinto, ridotto a larve di edifici postmoderni sui quali aleggia la furia degli elementi. Bisonti di cemento che un tempo erano stati palazzi, uffici, tangenziali, ponti su un fiume nel frattempo tracimato, tristi circhi in rovina, al loro ultimo giro di giostra tra clown, saltimbanchi e mangiafuoco. Alzando gli occhi da una terra tutta asfalto e antracite, la luna incombe in un cielo color pece da apocalisse, stravolto da un rincorrersi di nubi pronte a scatenare il diluvio. Ma a ben guardare, non sarà pioggia o neve il fitto cadere di quei grossi fiocchi, ma cenere, pagliuzze disanimate di un rogo. La pira. Al Festival Verdi di Parma, in corso in queste settimane, Trovatore che alla prima recita ha autenticamente infiammato il Teatro Regio di bordate di indignazione (per chi se lo fosse perso, le recite proseguiranno a giovedì 12 ottobre prossimo), è lei la grande assente di una regia che Davide Livermore concepisce in un rutilante, didascalico susseguirsi di videoproiezioni. Essa non si vede perché è ovunque. Brucia lontana, all’orizzonte, e i suoi fumi neri invadono un’aria divenuta irrespirabile; brucia ora ma bruciava anche in un passato remoto che la memoria allucinata di Azucena – qui vestita dal graffio regale di una strepitosa Clementine Margaine, acuti svettanti, gravi poderosi anche se un po’ spanciati, pasta di suono avvolgente – trascina in un eterno presente. E, soprattutto, nelle sue fiamme divora tutto ciò che c’è di umano. Se certamente molto di questo dramma qui è solo accennato, con il visionario ermetismo della musica soverchiato e appannato dal ridondante strapotere dell’immagine, ad emergere chiaro, chiarissimo, è il senso di irriducibile solitudine che aleggia tra ognuna delle creature che si aggirano sulla scena, monadi di un universo in decomposizione. A partire dal Conte di Luna che Giovanni Meoni, subentrato in corsa a sostituire Franco Vassallo, rende con qualche evidente fatica nell’aspetto vocale ma con altrettanta sottigliezza nel regalare al solito perfido antagonista le venature di un vago senso di preannunciata sconfitta, la stanchezza strascicata del potere che non vede mai la luce e che, per questo, da vittorioso, finirà per soccombere. Francesca Dotto è una Leonora di bello smalto ma che fatica, anche per comprensibili ragioni, ad entrare nelle dinamiche delle scelte imposte dalla regia e finisce relegata ad un pur apprezzabile ruolo di bella e sognante ragazza da marito, credibile nelle oasi liriche ma più pallida quando la vicenda le chiede le livide tinte del sacrificio di sé in nome dell’amato. Lui, Manrico, è un Riccardo Massi dal timbro chiaro e dalle belle intenzioni, ma non sempre abbastanza sanguigno nell’affondo, più baldanzoso che viscerale. Attorno, bravi i primari Roberto Tagliavini come Fernando, Carmen Lopez come Ines e Didier Pieri come Ruiz. In buca, Francesco Ivan Ciampa dirige e concerta con la solita turgida carnalità, imponendo all’Orchestra e al Coro del Comunale di Bologna di cantare sul canto, in un costante abbraccio con quanto avviene in scena, prendendosi anche qualche rischio nello slentare i tempi fino a riportarli ad una dimensione forse più fisiologica ma certo più faticosa da reggere senza che la tensione narrativa si fletta. Per il resto, con un’equazione piuttosto pericolosa, gli zingari sono gli improbabili girovaghi circensi, forse gli ultimi reduci di un’umanità appiattita nella galleria delle ovvietà: il gangster, la pupa, gli sgherri in cappotto di pelle, le scene di guerriglia urbana, con vaghe citazioni a metà tra Joker e Matrix. Nel ciclico comparire, uno di fronte all’altro, di emaciati ragazzini – capelli arruffati e tracce di vecchio trucco sul viso, forse a nascondere i segni di un’antica miseria e di un’altrettanto forte affinità – la chiave della scena finale: Manrico, l’avversario di una vita che il Conte di Luna ordina di uccidere con un colpo di pistola, è in realtà il fratello. Appalusi vivi nella recita di domenica 1 ottobre.
Elide Bergamaschi