MENTON Pochi hanno nelle dita, e prima ancora in testa, l’orizzonte immaginativo di Alexandre Kantorow. Allo stesso modo, pochissimi sanno dissimulare, sotto la serica levigatezza di un fare musica di rara condensazione poetica, la marmorea strumentalità di una tecnica formidabile. A lui, alla sua classe sconfinata che ne fa una delle voci più identitarie in un panorama affollato di talenti, è stato affidato il concerto di chiusura dell’edizione numero 74 del Festival de Musique di Menton. Il direttore artistico, Paul Emmanuel Thomas, ha voluto lui a suggellare un cartellone raggrumato in un grappolo di appuntamenti – dieci giorni in tutto contro le oltre due settimane del passato – ma forse mai, in tempi recenti, così autenticamente fitto di rivelazioni, nel coraggioso eclettismo delle sue proposte. Solista di razza e al tempo stesso camerista finissimo, incessantemente teso al dialogo, ad un’interazione fatta di ascolto, rilancio, discrezione, Kantorow incarna il custode di un pianismo per certi aspetti d’antan, capace di incursioni torrenziali ma mai un grado più en dehors di quanto necessario, mai a prendersi la scena quando non richiesto. Lo scorso 5 agosto, insieme alla Sinfonia Varsovia diretta da Aziz Shokhakimov, sua era la firma al Beethoven di un monumentale Concerto op.58, a partire dall’avvincente mistero con cui è proprio il pianoforte a guidare l’ingresso nel suo giardino incantato. Nessuna stucchevolezza: il timido ribattuto degli accordi staccati con una morbidezza quasi vocalistica, il sipario trasparente dell’incipit sull’orizzonte che, cinque sole battute dopo, gli archi avrebbero raccolto ed un costante, pervasivo, senso di stupefazione, a guidare il viaggio in cui l’interprete era, prima e ancor più, spettatore oltre che protagonista. Una pagina, questa, che non smette di interrogare interpreti e pubblico nella sua cesura con il mondo precedente – quello, per intenderci, di Mozart – ancora aleggiante nei Concerti precedenti. Il pianoforte solista chiamato a preludiare e a suggerire, in nuce, un intero mondo espressivo; l’orchestra a sua volta tesa a riannodare i fili dello spunto pianistico e ad assorbirli in un’interazione di inedita mobilità, nella quale il paradigmatico “conflitto” dialettico tra uno e tutti sembra cedere a ben più articolati, segreti rimandi. L’affettuosa, pudica delicatezza iniziale, nel corso dei tre movimenti, trova anse di disincanto, nel lapidario dramma dell’Andante con moto, in cui il ritmo puntato dell’orchestra spegne senza indugi l’implorante, querulo canto del pianoforte, fino a sfociare nella divertita effervescenza del Rondò finale, raffinata danza campestre intrisa di sapori e di colori che sembrano occhieggiare al mondo di una ritrovata Arcadia. A metà strada tra l’approccio scientifico e filosofico, Kantorow chiamava a sé i valorosi musicisti della formazione guidata dal carismatico direttore uzbeko e li attendeva, sulla porta, per un itinerario esplorativo e totalizzante, teso a fare dell’esecuzione un atto non solo creativo ma più radicalmente fondativo. Non una performance, insomma, ma una mappa emotiva, personale ed universale. Una cosmologia in cui l’esecuzione respirava nella potenza del suo stesso atto. Il pianoforte dentro all’orchestra, discreto e sinfonico al tempo, ampissimo nell’arcata del suo disegno, avvolgente, e miniaturistico nel cesellare ogni intimo sussulto di quella trasognata partitura. Nella perfetta intesa con il direttore, svettavano, in un gioco sottile di totale complicità, le cesellature con cui questo ventiseienne di Clermont Ferrand, trionfatore nel 2019 al Concorso Ciaikovsky, replicava, rilanciava, commentava spunti e voci interne, ricreandone il colore, l’eco, l’umore. L’Andante con moto centrale, con le sue domande brucianti, i suoi silenzi sgomenti, era un caleidoscopio di ombre affacciato sulle regioni più riposte dell’io, in attesa della luce, aurorale, segretamente irrefrenabile che si dilata nel movimento finale. Un invito che era già un inno alla gioia e alla danza che, a seguire, con un vitalismo elettrico, in più momenti persino sovraccarico di energia e di slancio, Shokhikamov imprimeva alla Settima Sinfonia beethoveniana, frizzante chiosa di una serata magnifica e di un Festival da incorniciare.
Elide Bergamaschi