CASALMAGGIORE Basterebbe quel congedo – quel traboccante Brahms a labbra socchiuse che è il secondo Intermezzo dall’op.118, per dire – a chi c’era e a chi non c’era – la bellezza di una serata e, con essa, la caratura del suo interprete. Doveva essere un appuntamento tra amici, alle soglie dell’informalità, con il Teatro Comunale ed il Fazioli grancoda a fare da padroni di casa ad una messa in prova di un programma disseminato di insidie. Ma Casalmaggiore è avvezza a superare le aspettative e, complice l’irriducibile pubblico del suo International Festival, l’occasione si è tramutata in una serata di grazia. Sul palco, a squadernare un racconto di rara nobiltà, dispensatore di uno sguardo sulla musica che è ogni volta conferma e sorpresa, era Filippo Gamba, gigante di un pianismo per sottrazione, scarnificato di ogni effetto di troppo, aggrappato piuttosto ad una narrazione fatta di legati sul fiato, di fraseggi tesi e cesellati, di incessante investigazione sui Warum sottesi al dire. Sul leggio, il Beethoven del crepuscolo sonatistico: la costellazione di sorelle “minori”, dall’op.78 all’op.90, fino al grandioso colpo d’ali dell’op.101, con cui di fatto, si inaugura il miglio conclusivo del percorso delle trentadue. E, trovato l’assetto, letta l’asciutta acustica della sala, il pianista veronese ne faceva affiorare una commovente tavolozza di colori dell’anima, di umori segreti, di verità anche disarmanti. Il piccolo mondo antico, la bellezza semplice di un universo ai margini della vita, la Vienna delle periferie, affacciata sui boschi, ma anche l’incalzare di inquietudini profonde e pungenti come stilettate. Un gioco di specchi, di echi, narrato con pudore ed incrollabile onestà, che trovava nell’intimità più immaginifica il filo rosso del suo snodarsi. Baricentro del viaggio, l’op. 81, nota come “Les adieux” era un bassorilievo di toccante innocenza in cui, tra partenza e ritorno, a dominare era la landa desolata, metafisica, del movimento centrale, prima di cedere ad una gioia mai chiassosa. Allo stesso modo, l’op. 78 guardava allo Schubert chiaroscurale delle felicità domestiche scandite dal mutare delle ore, dal passo del viandante, mentre l’op. 79, tre movimenti di spiccato, ruvido, irresistibile capriccio, era puro piacere dell’istante tra echi di caccia, motivi popolareschi, anse di amara malinconia. E, in un silenzio avvinto degno delle grandi sale, l’op.90 e l’101 finivano per comporre nel disegno di Gamba un’arcata unica, un respiro che dai rovelli brucianti, dai silenzi feroci della prima, stemperati dal levarsi di un canto di segno liederistico (ancora l’ombra lunga Schubert), proiettavano il loro sguardo sulle olimpiche geometrie della seconda. Qui, molte domande sembravano trovare risposta e mille altre aprirsi a ben più dense nebbie che l’incalzante pungolo di Gamba diradava, accompagnandone la sfrenata immaginazione timbrica, il passo improvvisativo, vagamente rapsodico, sino al grandioso movimento conclusivo. Un mondo sospeso,: Schubert alle spalle, lo Schumann di Kreisleriana già alle porte. A suggello, un bouquet di quattro Bagatelle, tra Beethoven e Bartok.
Elide Bergamaschi