MANTOVA Amadeus e Gianni Morandi, le co-conduttrici Chiara Ferragni, Francesca Fagnani, Paola Enogu, e Chiara Francini, una line-up di concorrenti tra glorie anni 90 e giovani canterini alla ricerca d’identità, un parterre di ospiti che ha messo insieme Pooh (orfani del compianto Stefano d’Orazio ma affiancati dall’“amico di sempre” Riccardo Fogli), Black Eyed Peas, Maneskin e Depeche Mode, tornati all’Ariston (dopo le edizioni del 1986, ’89 e ’90) per proporre in anteprima mondiale il nuovo singolo Ghost again e scaldare la sala a colpi di elettrorock con l’eterna Personal Jesus. Ventotto i cantanti in gara al 73° Festival di Sanremo, il quarto dell’era Amadeus. Qualcuno ci ha intravisto il tentativo di Ama di trasformare il Festival in un Festivalbar. Certamente il conduttore è riuscito a completare quella transizione tesa ad abbassare l’età media degli spettatori, con rischi annessi (chi ha più seguito sui social scala la classifica con i voti dei fan, e gli altri s’attaccano). La partenza è col botto, non solo in termini di ascolti: 62,4% di share. Per celebrare il settantacinquesimo anniversario della Costituzione arriva in sala all’Ariston nientemeno che il capo dello Stato Sergio Mattarella, accompagnato dalla figlia Laura. Quale occasione migliore per Roberto Benigni per tessere l’elogio dell’articolo 21 e propinarci la solita narrazione del Paese finalmente libero. La gara parte a rilento. Sullo sfondo la maestosa coreografia di Gaetano Castelli, una garanzia. Tra un trallallero e l’altro c’è toccato sorbirci la consueta sfilata di personaggi arruolati a gettone che con la musica hanno poco a che fare, cioè comici e attori giunti per promuovere film e fiction. Ma ormai tolleriamo chiunque (eufemismo). Anche una pallavolista di colore che descrive come “razzista” il Paese che l’ha adottata o una fashion blogger milionaria che ci parla di violenza contro le donne dimenticando quando il marito rappatore – quel Fedez che ha nuovamente sfruttato la tv pubblica per le sue invettive livorose contro questo e quello – le additava con disprezzo nelle sue canzoni. Più che soluzioni ai problemi del mondo ci sono sembrate auto-celebrazioni acchiappa follower: io che spiego al mondo quanto sia difficile emergere, perché sono tutti molto cattivi e io ti spiego però che ce la puoi fare, come ce l’ho fatta io. Tonnellate di melassa auto-riferita, colata dal grattacielo esclusivo dove i Ferragnez vivono, famoso per costare al metro quadro i risparmi della vita di un lavoratore comune. Tolleriamo persino la performance (che fosse combinata o meno poco importa) del Blanco furioso che si mette a scalciare le scenografie floreali, con un Ama alquanto imbarazzato nel vano tentativo di placare i fischi della sala. Mike Bongiorno e Pippo Baudo lo avrebbero accompagnato fuori per un orecchio, non prima di avergli fatto ripulire il palco. Ma scandalizzarsi è quasi pleonastico, perché in passato da quel palco abbiamo visto di tutto. O almeno così credevamo. In effetti la letterina dell’influencer sciorina-superlativi (ritenuta più meritevole, indipendentemente da come la si pensi, di quella del leader ucraino Zelensky, letta solo a notte fonda dopo mesi di inutili parole. Una figuraccia evitabile) – e il cantante che si mette a mimare un amplesso mancavano nel frullatore mediatico sanremese. Il punto, semmai, è che la gente è stanca di prediche, lezioncine di morale e pistolotti politici. Il Festival deve farci ascoltare la musica. Non è un caso se il picco dell’entusiasmo è coinciso con l’esibizione di Gianni Morandi, Massimo Ranieri e Al Bano, trio di fuoriclasse capaci di emozionare incrociando i rispettivi repertori e omaggiando quel gigante di Umberto Bindi. Doveroso l’ossequio a Burt Bacharach, scomparso giovedì, leggendario compositore pop che con quei suoi arrangiamenti pieni di trombe discrete e di voci sofisticate ha segnato decenni di musica per il cinema, mentre venerdì, serata dei duetti, ha fatto piacere rivedere sul palco Peppino Di Capri, che ha guadagnato il pianoforte per eseguire l’immortale Champagne, prima di ricevere il meritato premio alla carriera. Dicevamo dei duetti, andati (pure) appannaggio del vincitore annunciato Marco Mengoni che, accompagnato dal Kingdom Choir, ha piazzato la sua sontuosa Let it be. Personalmente abbiamo preferito l’abbinata tra Ultimo e Ramazzotti, con Eros che dà l’idea di comportarsi come un padre col figlio e la storia comune dei due nati ai bordi di periferia. Sono passati trentasette anni ma Adesso tu resta un brano che ti divampa dentro. Bello ritrovare colonne portanti dell’Ariston come Michele Zarrillo e Paolo Vallesi. Aria di nostalgia. E non è finita qui, perché sabato ci siamo commossi tutti insieme al Gianni Nazionale quando ha intonato i capolavori del mai dimenticato Lucio Dalla – che il 4 marzo di quest’anno avrebbe compiuto 80 anni – o quando Gino Paoli e poi Ornella Vanoni, raffinati interpreti di un passato canoro che sa resistere alle stagioni, ci hanno deliziato con le loro evergreen. La sensazione è che attraverso questi simulacri ci sentiremo impietosamente additati nella nostra decadenza.
Matteo Vincenzi