Sold out il Ponchielli per l’inaugurazione della stagione concertistica

CREMONA Per l’inaugurazione della sua Stagione Concertistica, Cremona ha giocato sul doppio tavolo del tempo, tra passato e futuro. Lo scorso 19 gennaio, in un Teatro Ponchielli da tutto esaurito – bella eleganza in platea, tanti rappresentanti delle istituzioni, Sindaco e autorità nel Palco Reale – attesa protagonista era la Filarmonica della Scala diretta da Lorenzo Viotti. Alla testa della compagine scaligera, il direttore svizzero era chiamato alla prova del fuoco sul terreno della Sesta Sinfonia di Mahler. Territorio sconfinato quanto insidioso per estensione – ottanta minuti di musica ad altissima tensione emotiva – non meno che per complessità, scritta nelle estati del 1903 e 1904, la “Tragica”, questo l’epiteto, per diversi aspetti ambiguo, che la accompagna, porta con sé una serie di enigmi la cui soluzione rischia di rappresentare, come ammoniva lo stesso compositore, più che una via d’uscita, una trappola per direttore ed esecutori. La tenuta dei suoi quattro pannelli, a partire dalle immense campiture di quelli estremi; la febbrile altalena dei suoi repentini scarti d’umore; la gestione dei molteplici registri giustapposti, ancor più spesso sovrapposti, che la attraversano: sublime e triviale, estatico e barbarico, nostalgico e incalzante. Viotti – trentacinque anni e un’agenda sempre più internazionale – è direttore di spiccata intelligenza musicale e di misurata quanto incisiva autorevolezza, unite ad una pregevole lucidità nel governare i fili narrativi di una partitura debordante di presenze, voci, presagi. Alla testa di una formazione che appariva a più riprese intimidita a cospetto di un mondo così sovraffollato, la scelta, forse anche per convinzione, sicuramente per necessità, era quella di sfrondare i turgori, allestendo, attorno a quell’immensa corrente, coraggiose dighe che, se da un lato ne attutivano l’impatto visionario, ovattandone, soprattutto nella prima parte, il disperato anelito, dall’altro ne preservavano la tenuta. Così, l’iniziale Allegro energico, ma non troppo, nella inesorabile marcia innescata dai contrabbassi, stava in bilico, incerto se protendersi sul nero dirupo della sua tragedia o se conservarsi ad un passo dal precipizio, strascicato ma non sanguinante nel suo motto iniziale, sensuale senza disperazione, senza follia, nel tema-ritratto della moglie Alma, solo velatamente spettrale nell’accordo che, da maggiore, immediatamente trascolora in minore, beffardo, sinistro, come beffardo è il Fato, aleggiante nei colpi di martello che si abbattono come campane annuncianti la disfatta. Quel mondo, quella tinta, rimanevano lontani; pallidi erano anche i trapassi tra squarci di luce e ombre incombenti. Nell’amalgama talora faticoso delle sezioni, l’universo sovreccitato e ineluttabile di Mahler suonava dapprima statico, forzatamente spontaneo. Occorreva attendere la sagoma deformata dello Scherzo – qui nella primigenia collocazione a secondo numero, tra Allegro e Andante -, con la marcia della morte che si faceva danza macabra, forsennato martellare dei contrabbassi svaporante in un puerile pigolio di fiati, rustica, innocente onomatopea di un mondo remoto, per incontrare l’incanto delle periferie, delle marginalità in cui trovare conforto e rifugio. Qui, al riparo dalla sconquassante violenza della vita, Viotti pescava dalle sezioni la moltitudine di voci di un mondo non in posa, echi placidi di campanacci, voci nasali, nenie cacofoniche, scomposte, echi di fondali naturalistici. Schegge di vita portate dal vento, da chissà dove, tracce di una bellezza palpitante sotto la dura scorza dei giorni. Da qui, da questi orizzonti pietrificati, si alzava il canto sconfinato, steso su frasi ampissime, dell’Andante moderato, introverso e segretamente struggente nell’angolazione sobria impressa da Viotti; un canto da tenere tra le mani per poterne scaldare la voce, nel tappeto di archi sempre più smaterializzati, nell’arcano segnale dell’arpa, mentre il paesaggio assumeva tonalità vitree, metalliche, via via più surreali. Il senso del tragico, della definitiva ricapitolazione, era lì alle porte, dietro quel giardino. Nell’irrompere della tuba, con il suo laico dies iræ, a spalancare le porte del quadro finale in cui tutto finiva per essere trascinato e accumulato, in una costruzione di straordinaria audacia. Relitti, scorie, macerie di precedenti naufragi trasportate dalla corrente dei precedenti movimenti: barbagli dalla Quinta, il livido occhieggiare della Terza, il senso di perdita, di irrimediabile. Barbagli che dicevano il compiersi del Fato e, al tempo, il suo strenuo, disperato resistergli, nell’impennarsi degli ottoni e nel loro disfacimento nella nebbia polverosa di suoni lontani, definitivamente spenti dalle mazzate del timpano. La festa è finita.

Elide Bergamaschi