MANTOVA – Si muoveva “come un gruppo unico” la famiglia di Francesco Grande Aracri, 67enne fratello del boss della ‘ndrangheta di Cutro Nicolino. Quando il capofamiglia (che dopo la condanna per mafia dei primi anni 2000 doveva presentarsi due volte a settimana dai carabinieri con divieto di lasciare Brescello e la provincia di Reggio Emilia) non poteva agire, lo facevano per lui la moglie o i figli. A confermarlo ieri in tribunale a Reggio Emilia il commissario di Polizia Saverio Pescatore, testimone della procura nel processo ordinario di primo grado “Grimilde”, rappresentata dal pubblico ministero della Dda di Bologna Beatrice Ronchi. Nella nuova deposizione il teste ha inoltre di nuovo rimarcato che con il sodalizio ‘ndranghetistico emiliano e quel fratello criminale da lui definito “una pecora nera”, Francesco Grande Aracri aveva invece mantenuto intatti i legami di sangue e i rapporti d’affari, interfacciandosi con esponenti di spicco dell’organizzazione. La Polizia bolognese lo avrebbe ricostruito passando al vaglio centinaia di intercettazioni telefoniche, che svelano retroscena di episodi particolari. Uno, dettaglia Pescatore, è quello del pranzo di Ferragosto del 2012 organizzato in Calabria dal boss Nicolino, uscito l’anno prima dal carcere dopo dieci anni di detenzione. A tavola col boss hanno appurato gli investigatori, c’erano infatti i nipoti Salvatore e Rosita Grande Aracri (figli di Francesco) e la cognata Santina Pucci (moglie di quest’ultimo). Gli stessi figli di Francesco, Paolo e Salvatore – entrambi imputati – gestivano attivamente gli affari di famiglia.