Trio Kobalt, prove per grandi successi

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Casalmaggiore Nessuna prevenzione, men che meno ostilità, verso il pubblico orientale dell’estate, sia ben chiaro. Ma il colpo d’occhio dell’altra sera a Casalmaggiore raccontava, finalmente, di un Teatro Comunale consegnato ad un uditorio non esoticamente d’occasione ma di casa, punteggiato di giovani, richiamato da un evento a cui non mancare. Platea gremita, diversi spettatori seduti nei palchi e più rare presenze in loggione. Tutti lì, ad ascoltare il Trio Kobalt, nella prova generale in vista degli imminenti debutti su prestigiosi palcoscenici come la Filarmonica di Trento e, soprattutto, la Società del Quartetto di Milano. Formatisi nelle aule del Conservatorio di Lugano ed oggi letteralmente volati al Conservatoire de Musique di Parigi, dove si stanno perfezionando sotto le ali del magnifico Trio Wanderer, Irenè Fiorito, Lorenzo Guida e il casalasco Riccardo Ronda hanno regalato a chi c’era una passeggiata nel camerismo più ispirato, intrecciando tra loro pagine arcinote con autentiche rarità. In apertura, la compassata, birichina eleganza di Haydn e del suo Trio Hob. XV:29 in Si bemolle maggiore, attraversato da lampi di sagace ironia culminanti nel giocoso girotondo finale, dopo aver sostato tra le nebbie dell’Andantino centrale, in un esitante soliloquio intriso di lirismo. Dall’altra parte dell’impaginato, ad attendere il Kobalt era la torrenziale esaltazione che pervade l’intero Trio in Re minore op.49 n°1 di Mendelssohn, con il fuoco che soffia capriccioso sulle linee, incalzate da una strumentalità accesa sollecitata dal violoncello e subito afferrata dagli altri due strumenti, tempestosa già nel primo movimento e folleggiante nel terzo, con il caldo conversare dell’Andante centrale, pagina di immensa complicità, di non detti, di appassionata serenità, controbilanciata dall’Allegro assai conclusivo, le cui severe briglie sembrano via via sciogliersi in un liberi tutti che conduce all’epilogo. Tra Haydn e Mendelssohn, il caleidoscopio struggente e vertiginoso di Thierry Escaich, voce tra le più significative della Francia contemporanea, con i cinque panelli che compongono le Scènes d’enfant au crépuscule; un polittico aperto dai rintocchi di campane lontane, fluttuanti nell’aereo tappeto sonoro del pianoforte, su cui andavano ad adagiarsi i fili rugginosi degli archi, con le loro improvvise, urticanti asprezze. Grumi dolorosi, brevi frammenti straziati spazzati via dalla scia pulviscolare del secondo quadro, nel pizzicato leggero, nervoso, che agita il fondale prima di precipitarlo sulla roccia greve dell’Adagio centrale, con il suo incedere strascicato, sanguinante, sui cristalli infranti di un pianoforte apertamente debitore delle visioni di Messiaen. Una pagina di grande tensione evocativa, di laica spiritualità, disseminata di inciampi, di ricadute, come il ricorrere rovinoso degli arpeggi discendenti suggeriva. Non c’è luce, non c’è libertà in questo gorgo che cattura e trascina via. L’unico gesto possibile è quello di assecondarne il corso, vestirne la tragica maschera, ovunque essa porti. Quella di uno sghembo valzer accennato con passi goffi, quasi una danza di marionette presto stroncata dall’irruzione del violoncello con il suo canto sanguinante e, qui sì, sincero. O quella sardonica, graffiante, tutta sincopi e ribattuti, di un tango mancato, l’ultimo, disperato impulso vitale via via soffocato, per autocombustione. Doveva essere una prova. Ma nessuno dei presenti si toglierà dalla mente di aver assistito, finalmente, alla lezione di cosa sia davvero un Trio.