CREMONA Una storia d’amore al tempo dei maranza. Tra tute in acetato, sneakers con suola carrarmata, striscioni e bandiere dietro cui covare rancori esplosivi, sessualità fluide che giocano con i generi e rendono tutto incerto, aperto, possibile. È una fiaba (nera) dei nostri tempi, e parla di noi, dei nostri tabù e delle nostre eterne miserie, questo “I Capuleti e i Montecchi” che lo scorso 2 febbraio, a Cremona, ha abbassato il sipario della Stagione Lirica. Ad attenderlo, dopo le tappe di Brescia, Como e Reggio Emilia, era un Ponchielli con troppi posti vuoti per un titolo (e per una produzione) che era un peccato perdersi. Per l’ambizioso plot di matrice shakespeariana travasato nel libretto dell’inossidabile Felice Romani, ma soprattutto per la sapienza con cui, in barba al fiasco decretato alla Prima del 1830, il trentenne Bellini gioca con gli stilemi del suo tempo e, mentre li combina con la grazia canoviana di un mirabile equilibrio, osa e sperimenta senza sosta, si concede libertà che la storia eleverà a canoni assoluti, indugia in soliloqui che sospendono il tempo della narrazione e li cristallizzano in istanti eterni preannunciando, di fatto, molto del tempo che verrà e che lui – genio ma soprattutto sregolatezza – si limiterà a consegnare ai posteri, senza poterne raccogliere i frutti. In buca, la lettura efficace di Sebastiano Rolli, alla guida della brava orchestra de I Pomeriggi Musicali, si divertiva ad attingere dal ricco forziere di una scrittura in cui era l’imbarazzo della scelta a guidare una conduzione in equilibrio tra scapricciata fantasia e spiccia concretezza, tra melodie infinite a cui tutti, da lì in poi, saranno debitori, affondi capaci di uno scandaglio introspettivo mai così audace, finezze e psicologismi con cui l’orchestra, i fiati in particolare (quel corno già intinto nel colore della morte, ma anche i clarinetti e, fuori sezione, quel violoncello sibillino) non solo assecondano ma, più spesso, anticipano le dinamiche emotive in scena. Soprattutto, merito del direttore emiliano era quello di costruire la frase e, più generalmente, la narrazione, guardando costantemente alla scena, cercando (e trovando) una intesa di singolare pregnanza con le scelte e il taglio impresso dalla regia di Andrea de Rosa e del suo team: Daniele Spanò per le scene, Ilaria Ariemme per i costumi e Pasquale Mari per le luci. Il risultato era un Bellini ancor più intenso, sotto la lente straniante di un’indagine sottopelle che rimuoveva i velluti per trovarne asprezze, fratture, tabù. Occorreva tempo per adattare lo sguardo alla lente impressa dal regista. Ma, una volta trovata l’angolazione, nulla più sfuggiva, e si faticava a far passare per provocazioni quelle che inizialmente potevano apparire come trovate riconducibili alla dittatura del vituperato filone Sessoesamba. Quando, dopo la lunga, intensa Ouverture, il sipario finalmente si apriva, a dominare erano losche figure a perimetro della scena, in piedi sugli spalti di non si sa bene quale edificio, seminascoste da una galleria di tiranti, urlanti odio e nuova inimistà. Intanto Giulietta è sola nella sua stanza, in un letto a futon in cui non sembra riuscire a prendere sonno, con cuffie giganti sul comodino e un libro di lettura posato per terra. Al soffitto, un immenso cubo di velluto color ocra, sospeso. Ad un tratto, mentre fuori da quella porta Capellio agita la sua fazione, una figura si introduce nella stanza della ragazza. Si spoglia con frenesia, si infila nel letto, fa l’amore con lei. È Romeo, l’innominabile, il nemico giurato dei Capuleti. Forte come la morte è l’amore, dice il più bel verso di sempre. La loro è passione proibita quanto ineluttabile, sul cui sentiero si è versato sangue, e nel sangue destinata a trovare suggello. Nessuna riconciliazione tra le due famiglie è possibile. Nessuna delle due tifoserie sarebbe disposta a tradire la fede lordando la propria bandiera con quella del nemico. Per questo, la pacificazione proposta dal giovane Montecchi sotto mentite spoglie verrà derisa e negata. A sposare Giulietta sarà Tebaldo. Il guanto è lanciato, e il dardo incendiario sta per scoccare. Con un gioco sapienti di luci, i tiranti di acciaio di fanno ambasciatori dei più neri presagi. La stanza di un’adolescente si rivela ben presto essere una prigione altoborghese, e dove era il letto, la sposa troverà il marmo freddo dell’altare nunziale, ma anche il marmo dell’altare sacrificale. La sua tomba. Ai lati di quel perimetro, là dove sembravano esservi corridoi e rampe di accesso, come nella fiaba di Barbablù, ad apparire nella loro inequivocabile chiarezza (ma come avevamo potuto non notarle prima?) sono altre lapidi in marmo, poste verticalmente, ognuna con un anello incastonato. La casa di Giulietta è un immenso cimitero in cui una intensa Benedetta Torre, qui nel ruolo della vita, scolpiva con adamantina bellezza “Oh quante volte, oh quante”, dando al suo inconsolabile dolore la forza e la statura di una pagina di teatro greco. Accanto a lei, monumentale, il Romeo di Annalisa Stroppa, voce d’altri tempi, tecnica sguainata con spavalda sicurezza e sensualità a cucchiaiate nonostante (o forse grazie a) i panni maschili. Li troveranno lì, i due amanti, a qualche passo l’uno dall’altra. Lui avvelenatosi dopo aver creduto lei morta. Lei incapace di vivere dopo essersi svegliata e aver trovato il giovane in preda agli ultimi respiri. L’incombente cubo ocra può finalmente essere calato a terra e custodire per sempre questi due destini, inconciliabili sulla terra ma destinati all’eterno connubio nel regno dei morti. Attorno, il mesto defluire di tifosi in un dopopartita senza vincitori, con due cadaveri sull’asfalto e sulla coscienza, le bandiere stinte e il senso di una sconfitta che non prevede partita di ritorno. A completare il cast, il Capellio stentoreo (e un po’ ruvido) di Baopeng Wang e i puntuali Matteo Guerzé e Matteo Falcier, rispettivamente nei panni di Lorenzo e di Tebaldo. Applausi al coro, in gran spolvero, preparato da Diego Maccagnola.
Elide Bergamaschi