PARMA Da tempo la Parma delle intoccabili tradizioni sembra osare carte difficili, scelte spigolose, quasi a suggerire l’idea di una ormai improrogabile necessità di dare nuovo segno e nuovo senso al teatro. Dopo l’inaugurazione quantomeno singolare affidata all’operetta con la raffinata “Gran Teatro Reinach” arriva “Carmen”, atteso secondo titolo della Stagione Lirica del Regio. Sulla carta, il ritorno nei ranghi dell’opera tout court; in realtà, non esattamente. La chiave di lettura sta nella regia firmata da Silvia Paoli che, per sottrazione, disegna una Siviglia (fedelmente) notturna, grigia e contemporanea, tutta cemento e vaghe periferie occhieggianti all’orizzonte. Vicina eppure Irraggiungibile. Dalla caserma e prigione, Don José ne percepisce la presenza incombente. Ma la città è per lui l’ennesimo miraggio di una mente ormai abitata da visioni ossessive, visitata dal refolo inebriante ed insopportabile di lei. Carmen è ricordo che non sbiadisce, colpa che non si lava, maledizione. Come a dire che la morte si sconta vivendo. Non può, dunque, esserci spazio alcuno per la luce imperiosa del sud, per i colori caldi della terra andalusa. La seduzione è già da queste premesse intrecciata alla fatalità in un racconto senza sconti. E questa è una discesa negli abissi dell’amore, pozzo dove le acque si fanno torbide, le identità poco chiare, ed ogni cosa finisce per marcire, a partire dai frutti più dolci. Carmen ci finirà, dentro a quel gorgo nero, vittima di una libertà pericolosamente rivendicata, e con lei trascinerà il suo ex amante. Diversi eppure simili, entrambi non fatti per quel mondo. Lei troppo spregiudicatamente coerente nella verticalità dei suoi sentimenti; lui troppo ingenuo per non venire risucchiato dal magnetismo dell’avvenente sigaraia. Entrambi attraversano la vita ma senza farne davvero parte. Creature atipiche, marginali, inafferrabili. In quella terra di nessuno plasmata a misura di maschio, le donne sono corpi da spogliare con gli occhi, tastare, magari col pretesto di un’ispezione a fine giornata lavorativa, da circondare per poi molestare ridacchiando, come succede a Micaela nell’opera, come succedeva in un drammatico scorcio di Capodanno di qualche settimana fa, ultima volta di troppe volte. Per il suo uomo, questa farfalla d’acciaio percorre montagne, sfida contrabbandieri, aspetta. Lui tenterà di seguirla e di annegare in una relazione “buona” la passione che lo divora. Il terzo atto si apre con lo skyline della Sierra Nevada, nera, al crepuscolo. Due ombre nere spingono una carrozzina, emblema di compiuta felicità domestica. Ma la creatura che vi dorme adagiata, una volta presa in braccio, altro non è che un sacco di sabbia. Polvere, aria, niente. È la sentenza, la conferma che non c’è via d’uscita. Tutto è già deciso. La fine già annunciata – le carte non mentono, dice Carmen – in un abbraccio mortale. Il fiore donato, da promessa di eternità, diventa l’ennesimo corpo disteso, l’ennesima bocca per sempre silenziata. In Carmen c’è di più, e molto altro, è vero. Ma c’è anche e soprattutto questo. E questa messinscena è un pugno nello stomaco, un bagno in un’attualità senza tempo, una condanna senza appello alle troppe efferatezze che contrappuntano l’amore. L’invocazione di forbici che recidano per sempre la catena. L’orchestra dell’Emilia Romagna Arturo Toscanini guidata da Jordi Bernàcer rispetta le tinte pallide ed allucinate che la visione registica suggerisce, ne asseconda il passo lieve e frammentato, talora sghembo, che si confà al condannato. E cresce di atto in atto; se inizialmente avremmo apprezzato asperità più sanguigne ed esplicite, con il procedere dell’azione tutto sembra rispondere a criteri sempre più chiari di coerenza, e quindi di efficacia. La scrittura di Bizet, sempre sorprendente per la capacità di combinare l’apparente esotismo andaluso a ben più profonde preziosità nel richiamo interno dei timbri, dei calibri, degli echi, affiorava quadro dopo quadro, non lussureggiante ma onirica, delicata, quasi profumata nella sobria lettura del direttore valenciano. In scena, (noi eravamo a teatro il 15, con il secondo cast), la Carmen di Ramona Zaharia non aveva l’uniformità vocale di quella di Martina Belli, ascoltata qualche giorno prima. Ma bastavano poche movenze ed un grappolo di note per capire che per plasticità, per naturale magnetismo vocale e scenico, per intensità interpretativa, l’abito della zingara le stava a pennello. Senza cadere nella facile seduzione della banalità, la sua Habanera era già sortilegio, destino, presagio. E la zingara che andava disegnando, da convenzionale predatrice, assumeva via via i tratti di una donna sofferta e sfaccettata, bella perché ferita, libera perché già troppe volte soffocata. Accanto, allo stesso modo il don José di Azer Zada, al netto di qualche increspatura, era l’azzeccato corrispettivo alle brunite corde di Carmen per calore del timbro, duttilità vocale nel piegare l’arco di frase e nel filare suoni acuti che ben raccontavano il rovello interiore, scavo interpretativo nell’animo focoso ed in fondo innocente del brigadiere. Applausi anche alla brava Micaela di Veronica Marini, la quale vestiva il suo personaggio di una lievità nitida ma a tratti sin troppo esile, a differenza del personaggio dolce ma pugnace scolpito nel primo cast dalla splendida Laura Giordano. Ben disegnato anche L’Escamillo di Alessandro Luongo, arrogante e tronfio nel ricercato consenso da parte del suo squallido codazzo di ammiratori, vocalmente marmoreo senza tuttavia perdere di innata eleganza e morbidezza. Da segnalare anche i personaggi laterali: Anna Maria Sarra e Chiara Tirotta rispettivamente Frasquita e Mercedes dalla frizzante verve, e Fabio Previati, Dancairo di pregio. Applausi anche al coro dei bambini istruito da Massimo Fiocchi Malaspina ed al consueto Coro del Teatro Regio, alle prese con una scrittura che ne metteva alla prova la proverbiale impeccabilità. Prossime recite venerdì 21 alle ore 20 e domenica 23 gennaio, alle ore 15,30.
Elide Bergmaaschi