Mitico. Si lisciava la barba bella imponente, si vedeva che si concentrava e cominciava a battere i polpastrelli sui tasti della macchina per scrivere. Ne uscivano pezzi brillanti e imponenti come la barba, come il suo sguardo e la sua cultura. Mario Cattafesta, un giornalista di quelli che dici perbacco che fortuna che ho avuto a conoscerlo, frequentarlo, vederlo in azione. Il professore, lo chiamavano. Perché ovviamente, ma nelle redazioni non sempre ovviamente vuol dire ovviamente, era professore e insegnava anche a noi.
C’erano due Cattafesta al giornale dei miei tempi, anni Ottanta. C’era il Mario del notiziario, quello che con pazienza e diligenza, grandi gesti scenici di arrotolamento e srotolamento delle agenzie di stampa, tagliava e incollava metri di carta con le notizie delle agenzie appena battute dalle telescriventi, e c’era il Mario della domenica o del giorno in cui giocava il Mantova Calcio, che tornava in redazione dopo la partita e scriveva l’ampio e lungo pezzo di commento alle imprese calcistiche virgiliane, compreso un componimento in rima, una poesia, che ha sempre avuto un grande successo di critica e di pubblico: da lì il titolo per il professor Mario Cattafesta, oltre che proprio di “professore” anche di “poetino”. Dentro e fuori il giornale. Dentro e fuori la cerchia degli amici e dei colleghi. Non si tirava indietro quando gli chiedevi consigli e informazioni ed era pronto a farti una illustrazione enciclopedica che adesso chiameresti motore di ricerca. E non è che si fermasse nel lavoro dei lettura dei lanci di agenzia e di soprattutto di taglio e cuci di questi fogli che diventavano articoli delle pagine Interni ed Esteri e della Prima, perbacco. Ecco Mario diceva spesso “perbacco” e a Bacco pure dedicò ricerca e racconti.
Arte e storia, libri e lingua, Greci e vino, olive e olio, Castellaro Lagusello e la bicicletta, il calcio e il costume nella larga e profonda produzione del giornalista e scrittore Cattafesta. Che era un artista anche nei modi e nel metodo: prima di scrivere declamava, provava le rime, parlava con sé stesso e con i lettori ancor prima di comporre righe o suoni.
La sua scrivania al notiziario, nella stanza vicina, allora in via Fratelli Bandiera 32, a quella del direttore, era confinante con quella del giornalista addetto alle cronache della provincia, all’epoca Piero Marcolini, da Verona. Spesso quando non c’era ressa in redazione raccontava della sua passione per l’etimologia, soprattutto per l’origine dei nomi dei luoghi. Un pomeriggio fece a noi, pochi fortunati di turno, una lezione su Olfino e Castellaro Lagusello. Un professore a tutto tondo per noi, appunto, che gli stavamo vicini e forse pure un po’ simpatici. Cesare De Agostini nella scrivania a fianco sorrideva sotto i baffi. Perché i baffi Cesare ce li aveva davvero. E poi il tutto finiva con uno sberleffo mantovano, mentre qualcuno da fuori chiedeva: permesso, è qui che portano gli occhiali persi in città?
Olfino, Castellaro, Lagusello, Monzambano: per me giovane praticante della Bassa quei nomi evocavano luoghi esotici quasi paesi e città del Sud America non dell’Alto Mantovano, dei posti che Mario Cattafesta amava e citava più di altri. Ol-fino, Mons Zambanus. E via di ricerca, mentale e fantastica.
Ogni tanto davo una mano al Piero Marcolini per passare i pezzi che i corrispondenti mandavano copiosi e rigogliosi da ogni comune e frazione del territorio. Mi capitava quindi di convivere qualche ora con Mario Cattafesta e con l’altro collega che seguiva interni ed esteri ma anche esperto notissimo di automobilismo Cesare De Agostini. La stanza del notiziario era attigua al locale in cui c’erano le telescriventi: il loro rumore scandiva la giornata. Il rapporto con le telescriventi, e quindi con la massa di notizie battute sui vari rotoli di carta che andavano sempre sorvegliati e cambiati era quasi fisico, d’amorosi sensi: beh in fondo quella era la fonte delle fonti, senza quei rotoli Italia ed Esteri non arrivavano. Mario Cattafesta e Cesare De Agostini e poi il caposervizio Lillo Aldegheri, che veniva da Verona, lavoravano ognuno per proprio conto ma anche insieme scambiando battute con codici culturali tutti loro, a volte anche semplici emissioni fonetiche, ovviamente in cadenza mantovana o scaligera.
Colla e forbici. Forbici sempre a portata di mano e tanta colla per mettere in fila quello che le telescriventi “ticchettavano” in orari diversi. C’era da stare attenti a seguire la Cambogia e l’Onu e non mischiare i pezzi di agenzia con il Governo Craxi o le indagini sulla strage di Bologna. Lavoro che Mario Cattafesta faceva con dedizione e attenzione massima come se firmasse ogni lavoro. Poi la lettura e la bozza di titolo, due righe, dure righe e un occhiello, oppure una riga e un sommario. Su carta libera, perché non c’erano ancora i moduli che da lì a poco avrebbero costretto la creatività per i titoli in format e numeri di battute. Il Mario della domenica era più sciolto, in coppia con Alberto Gazzoli, scriveva un centinaio di righe e forse più di commento e versi dopo la partita. Diventava il Poetino. Se non ci fosse stato troppa gente avrebbe salutato con citazioni letterarie e storiche, a cui rispondevano a seconda della presenza Luciano Spagna o Carlo Accorsi, con quelle intese a sguardi che solo in certi team puoi vivere e capire davvero.
Lui, gli appunti e la macchina per scrivere: anche se attorno c’era il mondo che faceva rumore, code di inserzionisti per le necrologie della giornata di festa, l’angolo della cronaca con i soliti incidenti stradali, lui Mario si isolava, era come se fosse avvolto in una atmosfera a parte e componeva. Nei rari momenti di silenzio si sentiva il bisbiglio di una frase. Poesia sussurrata nella poesia scritta. Mario Cattafesta ha scritto libri, epico il suo “Come bevevano gli antichi”, e condotto seminari, presentato conferenze e animato dibattiti. Nei momenti ufficiali indossava giacche ufficiali, lui che di solito girava in maglietta anche a maniche corte, anche d’inverno quando a Mantova la temperatura era meno 2 o meno 4. Mario era fatto così. E a volte per presentazioni pubbliche metteva al collo un quasi ottocentesco aristocratico foulard.
Una notte in tipografia quando era di turno a chiudere la parte delle pagine nazionali ed io quelle di cronaca locale mi disse una frase che mi viene spesso in mente. “Binacchi fai bene a specializzarti nell’informazione agricola, perché nel nostro mestiere conta molto la specializzazione. Chi sa tutto, o sembra sapere tutto di un argomento o di un settore, al murirà mai ad fam”. E si accarezzava la barba con la mano destra, mentre dava l’ultimo sguardo ai titoli di prima pagina, a pochi secondi dalla partenza per la rotativa.