VERONA Due note, lo svolazzo del gonnellone gitano, un rabbuffo alla bianca chioma ribelle. Ed è subito Martha. Ed è subito sortilegio. Una malìa a cui un Filarmonico di Verona, completamente sold out lo scorso 19 settembre, finiva per essere attratto senza scampo. Troppa la furia gioiosa di un fare musica rutilante, così imperioso da sbriciolare l’azzardo strumentale in puro gioco, puro divertimento. Impossibile non pensare a Martha Argerich quando si declina il verbo to play, jouer, spielen. È lei, quella parola che tiene insieme, in un unico groviglio, arte ed istinto infantile, innocenza e rischio, funambolismo e risata. 80 anni di vita spesi a rincorrere se stessa ed un talento così enorme che in più di un’occasione ha rischiato di fagocitarne l’esistenza; trionfi, silenzi, ritorni, eccessi, con il pianoforte come unica bussola in un mare spesso burrascoso ma capace di rivelare, dell’orizzonte, meraviglie inesplorate. In occasione del concerto scaligero, la leggendaria pianista argentina ha indossato il Concerto per pianoforte n°1 di Dmitri Shostakovich con un’adesione che ne faceva quasi una seconda pelle, un autoritratto onesto e naturalissimo della ragazza senza tempo che è oggi. Un cuore messo a nudo. Con lei, sul palco, a contrappuntare le sue formidabili stilettate, la tromba di Sergei Nakariakov. Cristallo a spigoli vivi l’una, velluto damascato l’altro, in un dialogo alla pari insieme avvincente e rapinoso che si portava via con sé la coraggiosa compagine della Manchester Camerata guidata dal magnifico Gábor Tákacs – Nagy. Un racconto struggente ed iperbolico, subito innervato – all’ingresso del pianoforte, con quel tema che ammicca al Beethoven dell’op.57 – da lontane pulsazioni sudamericane, sghembe ed indisciplinate alla misura, echi remoti di milonghe mancate che davano all’incipit un accento più meditativo, più autobiografico. Se magnificamente caricaturale era la galleria di citazioni – tra il serioso e l’irriverente – che i due solisti si rimpallavano nel primo movimento (“ridere della musica seria”, come nelle intenzioni dello stesso Shostakovich), desolato era il canto che si levava dal secondo movimento, un valzer di infinita nostalgia, un passo a due triste e poetico, prima di ridare fuoco alle polveri e rituffarsi nel piglio toccatistico dei movimenti conclusivi. Un gioco di specchi, tra tromba e pianoforte, di opposti convergenti, una gara di bravura tra temperamenti diversi ed affini come solo tra grandi interpreti accade. E se la musicalità tracimante di Nakariakov costituiva la carta a sorpresa della serata, a sbalordire, al di là di uno smalto diabolico, di un virtuosismo inventivo e visionario che brucia parole e commenti, è ancora una volta l’umiltà con cui questa gran signora del pianoforte si accosta ogni volta ad una pagina. Con timore, quasi, con tensione, forse con la paura di non essere all’altezza del proprio stesso mito; poi, quando la musica prende il largo, ecco prevalere la natura, quella natura libera e tracimante che fa ancora volare mani e testa, ma che dà ali anche ai piedi, in giochi di pedale da autentica tanguera, tutto echi e riverberi. Furore e nostalgia, fuoco e vento che ammorbidivano, umanizzandoli, rivelandoli nella loro trasudante umanità, gli interventi clowneschi del terzo movimento, il sarcastico apparire di sagome deformate, il parossistico accelerando del movimento finale dove solisti e orchestra, con allegra incoscienza, galoppavano, incontenibili, verso il trionfalismo ridanciano della fanfara finale. Ma la danza era già nell’aria, nelle mani da prestigiatore del direttore che già nella pagina d’apertura, un Elgar tenero e crepuscolare, increspato da uno sguardo retrospettivo, rivelavano una vocazione al lavoro di cesello, al dettaglio da illuminare, e quell’attenzione al ritmo, al groove che è magma, forza sopita, battito interiore che la scuola ungherese come nessun’altra assicura. Mani dentro all’orchestra, l’orchestra nelle dita, ad indicare ogni frammento, ogni respiro. Mondo bello e perduto, rimpianto, quello che Tchaikovsky nella conclusiva Serenata per archi op. 48 dipinge nel suo polittico a quattro pannelli, con il grande valzer centrale in cui lo sfavillio del passato riluce sotto il velo della commozione. Mondo del sangue, delle radici, mondo ancestrale, invece, quello di Bartók e delle sue danze popolari rumene. Iperfraseggiate, ad esasperarne l’essenza più autentica, a catturarne l’indomita anima slava. Ruvida senza cattiveria, selvatica senza rancore. Danze ebbre e malinconiche, narrazioni sospese, feste ed echi di drammi comuni a narratore e spettatore, con gli archi plasmati come creta. Serata di emozioni e commozione.
Elide Bergamaschi