Un successo “Il Trovatore” al Municipale di Piacenza

PIACENZA Fuoco rappreso, divenuto pietra. Un rosso materico così buio da sconfinare nel nero di ombre fatte della stessa materia della notte. Il Trovatore che lo scorso fine settimana ha trionfato al Municipale di Piacenza – con numeri da tutto esaurito al botteghino e, in sala, con un trionfo da corrida – trovava nell’intuizione registica di Stefano Monti la chiave per una vicenda da sempre criptica e oscura, troppo spesso risolta con pesanti dosi di folklore gitano. Qui, invece, era la sottrazione la cifra dominante. Nessuna pira, dunque, e niente zingari agghindati di stracci. Piuttosto, lo spazio claustrofobico di pannelli mobili chiamati a ricreare ora il severo palazzo dell’Aliaferia ora la torre di prigionia del Trovatore, ora, per lontana citazione, le aspre geometrie della Biscaglia. Pareti impenetrabili, corrose dal tempo e dalle tracce di un antico rogo, scavate come crete di Burri. Relitti di sorda pervicacia. In questo giro di compasso è compreso il destino apparentemente inconciliabile di due mondi destinati a rincorrersi e a divorarsi: vincitori ed eterni vinti, giardini incantati e la suburra. Universi divisi da pietre che il tempo erige e abbatte, sposta e sfalsa, in un gioco di amore e rancore in cui smarrirsi è fatale. Vano è allora tentare di sfuggire alla propria sorte, al responso dei dadi. Puerile è affidarsi ai sogni, quanto ugualmente scriteriato è accarezzare pensiero del giorno in cui sferrare la propria vendetta. Solo la consapevolezza della fine rende sicuri, invincibili, immuni da qualsiasi minaccia, quindi intimamente liberi. La dolce e ostinata Leonora, l’impavido quanto ingenuo Manrico, il cinico Conte di Luna si muovono come falene sfinite nel disegno di un’orbita già tracciata. Soccomberanno, uno con l’altro, uno per l’altro, uniti da una ragnatela di destini inestricabili. Leonora cadrà nel sonno eterno del veleno bevuto per sottrarsi alle nozze con il Conte, Manrico – con un magnifico colpo di teatro – non trafitto dall’ignara spada del fratello ma inghiottito dalla nera sagoma di donna che giganteggiava sul fondo. Il rogo, la pira divenuta presenza invisibile, incombente, pervasiva. Azucena vive, e vince. Nulla del futuro la turba, lei che porta già sul viso i segni della fine. L’idea delle torture, la violenza a cui è sottoposta, il disprezzo con cui è trattata; nulla la tocca. Al contrario degli altri, lanciati a folle corsa verso la propria distruzione, destinati a schiantarsi, vittime uno dell’altro, lei non guarda avanti ma dietro a sé. Il suo sguardo spiritato vede nel passato un eterno presente. Per questo lei non invecchia, non ha tempo, non appartiene a nulla. Verdi voleva lasciare a lei, alla zingara crudele e pietosa, l’onore del titolo dell’opera. La scorsa domenica, così come era stato due sere prima, Anna Maria Chiuri ha reso onore alla figura sghemba e straziata di questa donna dilaniata dalla propria colpa, eternamente condannata ad espiare ricordando, nella speranza di poter vendicare l’orrore del proprio involontario infanticidio. A torreggiare, commuovere, turbare, era la sua abissale pietà di donna finalmente sottratta al macchiettismo di capelli arruffati e modi animaleschi. Una donna consumata dalla vita ma ancora bella, regale nei modi, indomita nello sguardo. E quando il suo racconto prendeva inizio, anche la bacchetta serrata, giustamente incalzante di Matteo Beltrami (al netto di qualche rigidità di troppo nel disegnare le arcate di frase, nel delineare colori e umori dello scavo drammaturgico), era costretta a piegarsi allo strazio del suo canto, allo spalancarsi dell’orrore. Un orrore dipinto come un affresco barocco, con i colori vividi di una laica via crucis, sillaba per sillaba, con il cesello su ogni accento come a memoria non ricordiamo. Azucena procedeva per accentazioni esasperate, quasi a reiterare un ossessivo bisogno di liberarsi da un grumo di ricordi che le strozzava la gola; e quando il racconto arrivava alla scena madre di “Condotta ell’era in ceppi”, ecco i lampi, le colate di lava, il sale. “Parola scenica”, chiedeva Verdi. Eccola. Servita con un’eleganza e un coraggio magistrali, plasmati in un legato di sublime intimismo e intelligenza. Di fronte ad una tale prova di interprete, brillavano di luce riflessa i pur valorosi comprimari. A partire da una notevole Chiara Isotton, Leonora di preziosa fattura, precisa in ogni tratto e nobile nella linea del canto; a contendersela – soprattutto a colpi di decibel, in più di un momento decisamente sovrabbondanti – erano il Conte di Luna di Ernesto Petti, elegante ed incisivo nel sontuoso strumento vocale a disposizione, ed il Manrico pugnace di Angelo Villari, autentico mattatore nell’attesissima “Di quella pira”, bissata a furor di pubblico ma, come nel caso del rivale, non altrettanto pregnante nello sfaccettare i risvolti più intimi, più sottilmente impliciti del suo personaggio, oltre che non sempre impeccabile per intonazione. Applausi anche all’Orchestra Filarmonica Italiana, al Coro, istruito da Corrado Casati, e ai comprimari: su tutti, il Ruiz di Andrea Galli, contrappuntato, nella scena successiva, dall’intensa Ines di Ilaria Alida Quirico. Il definitivo trionfo di Azucena l’indomita, e con lei di un Teatro che fa della provincia italiana il miglior osservatorio da cui fare e fruire la musica.
Elide Bergamaschi