Il Festival Verdi è già un successo dopo Macbeth e La Battaglia di Legnano

PARMA Nel frattempo, le rispettive Prime sono andate in scena, e la fitta sequenza di repliche ne vedrà i titoli rincorrersi fino al 20 ottobre, giorno in cui calerà il sipario per quest’edizione numero ventiquattro. Ma il limpido successo unanimemente decretato al Macbeth della versione francese datata 1865 e a La Battaglia di Legnano, i due titoli di punta del cartellone del Festival Verdi di Parma, appariva chiaro già dalle premesse. Noi eravamo alla generale dell’una e all’under 30 dell’altra, a sbirciare – tra ammirazione e, da mantovani, malcelata invidia – una città capace di consegnare il testimone del suo patrimonio più prezioso, locale prima ancora che universale, alle generazioni che si affacciano alla ribalta della vita. E al Regio, il primo applauso era ancora una volta per un teatro sempre pieno, pullulante di giovani vivaci, eleganti, leggeri, presissimi a farsi selfie da postare prontamente sui social dal loro inseparabile smartphone. Ma quando si abbassano le luci e lo spettacolo ha inizio, nessuno fiata: la compostezza e l’attenzione sincera danno punti a molte altre platee anche eccellenti, troppo spesso incanutite e chiassose, oltre che refrattarie ad accogliere l’opera come finestra da cui guardare al mondo di oggi, più che a celebrare, maniacalmente replicato, quello, estinto, di ieri. Il secondo applauso va, nei suoi spigoli ancora da rifinire, alla miracolosa macchina teatrale della città, al cantiere di professionalità altissime, capaci di montare, smontare e rimontare ogni volta con intelligenza, immediatezza ed efficacia i mille tasselli dell’incanto. Macbeth in lingua francese, dopo la prova generale del 2020, collocata all’ultimo nel prudente en plein air del Parco Ducale per ragioni dettate dall’emergenza pandemica, trova quest’anno finalmente l’onore del teatro, il contrappunto delle scene e della regia ad una scrittura musicale infallibile nel far risuonare nella mente dell’ascoltatore l’eco lunga che hanno solo le grandi pagine. La scelta registica di Pierre Audi è di percorrere la discesa agli inferi dell’antieroe shakespeariano strangolato dalla sua stessa cieca ambizione attraverso il classico topos del metateatro. Un sipario di velluto rosso squillante si apre su una scena che rispecchia un Regio vuoto, specchio dorato e desolato del potere in attesa di consacrazione, o subito dopo la sua disfatta. Qui apparirà, dal Palco Reale, Duncan, qui la corte si riunirà in eleganti abiti neri, per le scene pubbliche. Niente di nuovo, insomma, ma l’accuratezza e la sottigliezza con cui, in buca, Roberto Abbado raccoglie ogni sfumatura, anzi, la anticipa, scandagliando ai raggi X quel Verdi ripreso, traslato, rimaneggiato in una gestazione lunga vent’anni, ne fa un solo fiato di quasi tre ore di pura stupefazione. Già nell’iniziale Ouverture, nel teatro che poi è la vita, tra riflettori e dietro le quinte, la tinta verdiana, quel soliloquio strumentale di un’anima che contende il senso della colpa all’Adamo di Masaccio, incapace di alzare di nuovo gli occhi al cielo, trovava nella duttile restituzione dell’orchestra il senso ultimo della vicenda. C’era tutto Shakespeare, in quel Verdi quasi immateriale, soavemente tragico, così altamente poetico nella sua opprimente, disincantata cognizione del dolore, con cui Abbado, nell’audace sfida vinta di dare non solo esecuzione ma incarnazione alla parola verdiana negli inediti quanto evocativi suoni nasali della lingua d’Oltralpe, stemperava il sanguigno nell’introspettivo, il concitato nell’aulico, lavorando sui differenti piani della tela orchestrale, come a dire che lì abita la parola scenica, non a blocchi compatti ma per fili singoli, ricamando ad arte, senza inutili calligrafismi, sul tracciato verdiano: l’affiorare lampeggiante delle voci interne, la ricerca di elementi sottesi capaci di anticipare e, quasi, di fagocitare l’incalzante teatralità cercata là dove l’ombra sottrae certezze. Con la matrice di questo taglio strumentale, perfettamente restituito da una Filarmonica Toscanini in gran spolvero, tutto in scena appariva formidabilmente esaltato: la profezia iniziale delle streghe in costumi neri, già bardate a lutto e recanti i simboli del potere, la piattaforma centrale, color pece, anticamera mobile dell’inconscio, pronta ad abbassarsi nelle viscere del palco, là dove Duncan verrà colto nel sonno dal pugnale, e a farsi luogo del delitto su cui la consapevolezza della colpa riporta un Macbeth ormai sfinito dai suoi stessi fantasmi. Da lì, il sovrano assassinato riaffiorerà, bara solenne, avvolta da drappi, a dire che nulla può essere celato per sempre. Nel frattempo il teatro-castello della Scozia remota si fa ben presto reticolo giganteggiante, gabbia asfittica, morsa inesorabile, mentre la giostra mortale aumenta i suoi giri e travolge, uno dopo l’altro, tutte le pedine sul suo corso: il Banquo nobilissimo di Michele Pertusi, alla sua ennesima, superba prova di interprete, il Malcolm puntuale di David Astorga e, gioco del destino, la stessa Lady, che alla Prima ritrovava la statura adamantina di Lidia Fridman e che in prova valorizzava il coraggioso talento di Ilaria Siciliano, qui di fronte ad uno dei ruoli più impervi. Dopo lo scoglio della tremenda cavatina d’inizio, il giovane soprano imboccava progressivamente la necessaria confidenza per mettere a punto le sfumature interiori del suo personaggio, i lampi, le reticenze, le mille tortuose ragioni della sua perversa coscienza. Con lei, il Macbeth solido e istintivo, più pugnace che attanagliato dai suoi stessi fantasmi, di Ernesto Petti, anche lui – come del resto tutto il cast – alle prese con una sfida dalle mille implicazioni: vocale, linguistica, scenica, e con un personaggio che è insieme, come e più di qualsiasi altro, eroe ed antieroe. A sopravvivere, il Macduff perfettamente stagliato di Luciano Ganci, rilucente nel taglio vigoroso e sorvegliato finemente dato al personaggio. È il Macbeth del 1865, lontano dai fumi quarantottini, ma soprattutto è il Macbeth, nobilissimo, di Roberto Abbado. 

Sull’altro versante, il Risorgimento esplicito de La Battaglia di Legnano trova altre ragioni per convincere. Ragioni uguali e opposte, altrettanto cristalline, sufficienti, almeno così sarà per noi, per ritornare a teatro in occasione delle ultime repliche. Perché non si smette di imparare e di impararsi, immergendosi in una finzione di cui Verdi si serve per “inventare il vero”. In buca, questa volta, ritroviamo la vitalità ragionata, il braccio saldo, le idee chiare del ventisettenne Diego Ceretta, capace di infondere, nell’Orchestra del Comunale di Bologna, un piglio risoluto e giustamente pugnace che serve la causa senza tralasciare le controbilanciature liriche, cameristiche, minaturistiche, di cui questa partitura di confine, spesso schiacciata tra altri titoli più risolti, ribolle. C’è tutto, dispensato con l’autorevolezza di una lettura ancora una volta attenta al dettaglio, nell’arte di attraversare i mille luoghi comuni verdiani, a partire proprio dalla trappola ingannevole di uno zum pa pa in realtà innervato di mille sorprendenti preziosismi, distillandone le profezie già disseminate a mano generosa, sebbene in controluce, pronte ad essere colte. In scena, Marina Rebeka mette il suo lucente strumento vocale a servizio di una Lida statuaria, trasparente negli abbandoni lirici quanto incrollabile nel dare fuoco ad un temperamento fiero, lombardo, italiano. Con lei, l’Arrigo di bel piglio e dalla pregevole duttilità di Antonio Poli e il puntualissimo Marcovaldo di Alessio Verna. Di gran lusso il cammeo con cui Riccardo Fassi delinea il Barbarossa. Più in affanno, alle prese con la scrittura giovanile verdiana, il pur raffinato Rolando di Vladimir Stoyanov. Su tutti, dopo quel contestato (e magnifico) primo Boccanegra di qualche anno fa, a svettare in questa Battaglia è però la firma, coraggiosa, audace, infinitamente sensibile, della regia di Valentina Carrasco, ben supportata dalle scene essenziali quanto pregnanti di Margerita Palli. La guerra vista nelle sinopie di Pisanello, nelle linee sbiadite raffiguranti scontri tra cavalieri medievali immortalati su parete. La guerra dei cavalli. In apertura, la lente della camera indugia su un occhio – iride, ciglia, peli – che è lo sguardo – mite, umanissimo – di quello che secoli e millenni è stato il più fedele, docile, umile servo dell’ambizione e della follia dell’uomo. Quando la telecamera allenta la presa lo vediamo in tutta la sua possanza: uno splendido esemplare equino, i muscoli tesi, pronto a galoppare e a morire con sprezzo di sé, tra schizzi d’acqua, polvere, urla, sangue. Ce ne saranno diversi, in scena. Così verosimili, statuari, composti da dare per un attimo l’illusione del vero; disposti a parata, pronti a scendere dal piedestallo della storia per rievocare la storia stessa e provare a cambiarne il destino. Saranno loro il motore metaforico di questa Battaglia, a loro la regista argentina affida la parte più umana di noi, l’ultima rimasta. Il loro fiato darà fiato ad un giuramento che inanella in un patto di sangue e di spade, dietro una rete metallica che ricorda le maglie dei cavalieri, comuni obiettivi a vecchi rancori e diffidenze. Avvolto in un sudario, pietosamente coperto, vittima sacrificale, è uno di loro. Bianco, bianchissimo, innocente. La sua testa mozzata sarà esibita a trofeo, ma anche a scintilla per dar fuoco alle polveri. Com’era stato in quel Boccanegra, ce n’è, ancora una volta, per riflettere a lungo. Infine, i due cori. Quello di Parma istruito da Martino Faggiani, nel Macbeth, alla difficile impresa di addomesticare il francese, e quello di Bologna, preparato da Gea Garatti Ansini. Applausi generosissimi, e meritati, ad entrambi. E se “O patrie! Ô noble-terre!” (“Patria oppressa”) è forse il più bel coro mai scritto da Verdi, chissà cosa deve essere stato quel “Italia risorge vestita di gloria” nella Roma del 1849. Pura dinamite in un’Italia ancora da fare.