Quattro chiacchiere con René Martin, direttore artistico del Festival de Piano de La Roque d’Anthéron

LA ROQUE D’ANTHERON Sangue bretone, le radici in quella Francia remota e selvatica in cui le ore scorrono più lente, ed è più facile ascoltare il respiro del tempo. René Martin, pioniere, giocatore d’azzardo dal fiuto spiccato su un tavolo che per lui non ha segreti, è oggi l’uomo che tiene tra le mani le chiavi dei maggiori Festival musicali nazionali, a loro volta ramificati in declinazioni internazionali, tra L’Europa e l’Estremo Oriente. Tra di essi, laboratorio e prima fucina di una formula pionieristica, quello del Festival de Piano de La Roque d’Anthéron rimane tuttavia qualcosa di magico e di irriproducibile altrove. Qui i padri incontrano i figli, i Maestri tendono la mano agli allievi. Memoria e futuro sembrano anelli di un’unica catena in cui sono le relazioni, umane prima ancora che artistiche, a fare da collante. Un luogo per ascoltare e ascoltarsi, una spa dell’anima nel segno della grande musica. Abbiamo incontrato il Direttore Artistico per farci raccontare il retroscena di questo miracolo che non accenna a declinare.

Direttore, un progetto, quello del Festival de Piano, nato nel 1981, da un’idea giudicata al tempo decisamente folle…

Ride. “Sì, è andata assolutamente così. Quando sono arrivato a La Roque ed ho visto la meraviglia del Parc, con i suoi 365 platani secolari e la grande fontana ormai inutilizzata al centro della radura, ho immediatamente immaginato che quel luogo fosse il teatro naturale per una grande rassegna di concerti. Ne ho quindi parlato al proprietario, Paul Onoratini il quale, con una generosità ed una fiducia difficili da immaginare oggi, ha voluto scommettere su questa follia e sul ragazzo che ero”.

Ci dica qualcosa delle prime stagioni.

“Inizialmente le persone pensavano fosse una bufala. Vedere un cartellone con nomi come Richter, Argerich, Lupu, Maria joao Pires, Zimerman in un paesino di provincia sembrava quasi uno scherzo di cattivo gusto. Invece era tutto vero. La tribuna non era ancora stata costruita, e a quel tempo disponevamo le sedie nel parco. Una sorta di scampagnata in cui, al posto del cibo, c’era la grande musica. I primi anni ovviamente sono stati una scommessa che solo uno scavezzacollo può intraprendere, con l’entusiasmo della gioventù; poi, stagione dopo stagione, l’apparato organizzativo è divenuto sempre più articolato, capillare, fino ad oggi”.

Cos’è rimasto, 42 edizioni dopo quel clamoroso esordio, dell’identità originaria del Festival?

“Credo che, al netto dei fisiologici cambiamenti dovuti alla necessità di stare al passo con tempi ed esigenze di pubblico e artisti, il progetto sia rimasto immutato. Fedele al suo spirito”.

Ovvero?

“Vivere la musica in uno scenario che è esso stesso musica. Fare della natura la più bella e viva sala da concerto, un ambiente in cui le pareti respirano con noi, risuonano dei nostri stessi passi, partecipano all’emozione dell’ascolto attraverso il fruscio delle foglie, il respiro del vento, il canto delle cicale o dei grilli. E, al posto del soffitto affrescato, la volta celeste che si spalanca la sera. Credo senza presunzione che quello de La Roque sia il più bel palcoscenico del mondo, con un’acustica peraltro straordinaria. Nessuna mano umana avrebbe potuto fare ciò che nei secoli ha saputo costruire la natura”.

Qui, ogni anno, per un mese circa tra luglio e agosto, approda qualcosa che assomiglia al meglio dell’offerta pianistica mondiale. Con quale criterio si muove per comporre il cartellone di ogni edizione?

“Bella domanda. Innanzitutto mi preme dire, anche per concludere il discorso precedentemente avviato, che la peculiarità di questo Festival non consiste nel raggruppare i grandi pianisti della scena mondiale del momento”.

Tuttavia, molti tra i grandi nomi sono presenze ricorrenti negli anni…

“Ed è questo il punto a cui volevo arrivare. Questo Festival vuole essere il luogo in cui un artista cresce, da giovane promessa ancora nel guscio, fino a trovare quella propria dimensione di piena affermazione di sé che possa esprimere tutta la sua individualità. La Roque, più che un tempio del pianoforte, vuole essere un laboratorio in cui prendere per mano, in un rapporto personale di sostegno e di vicinanza, l’artista sin dalle sue prime apparizioni, lavorare con lui, accompagnarlo nella sua carriera”.

In questo, il Suo fiuto è notoriamente proverbiale. Cosa La guida in una scelta? L’istinto o la razionalità?

“Credo di essere fondamentalmente un istintivo che ama prendersi qualche rischio e scommettere su ciò che sento e che mi colpisce. Ma l’esperienza di questi anni mi ha insegnato che il gioco vale la candela”.

Ci faccia qualche esempio.

“Arcadi Volodos, arrivato qui la prima volta negli anni ’90 come virtuoso fiammeggiante ed oggi visionario cantore di un pianismo intimista, come abbiamo avuto modo di ascoltare ieri sera (3 agosto, ndr). E Nicolas Angelich, che qui a La Roque si è esibito molte volte nella sua purtroppo breve vita. Ma potrei continuare all’infinito. Yuri Egorov, clamoroso debutto europeo di una stella anch’essa spentasi troppo presto. Bertrand Chamayou, quest’anno protagonista di un intenso viaggio nel mondo di Messiaen; e ancora, Nikolai Lugansky, Lucas Debargue, Alexandre Kantorow, Anna Geniushene, solo per citarne alcuni in ordine sparso. Tutti questi grandi artisti tornano con immenso piacere a La Roque. Qui trovano quella naturalezza, quella famigliarità del porgere la musica che altrove manca. Paradossalmente, l’en plein air, anziché disperdere l’ascolto, ne amplifica la bellezza”.

Fino ad ora abbiamo parlato di artisti. Ma qui, a La Roque, il pubblico è più che mai l’altra faccia della medaglia: un pubblico per tradizione accogliente, spontaneo, molto caloroso, tanto da applaudire anche tra un movimento e l’altro. Crede che in questo quasi mezzo secolo di storia del Festival sia cambiato e maturato in consapevolezza nell’approccio all’ascolto?

“Fondamentalmente, sono convinto che il pubblico si sia abituato ad una qualità delle proposte. Tra tanti professionisti e specialisti del settore, ci sono anche molti semplici appassionati, o turisti, in quanto il pubblico è molto eterogeneo e, come ha ben detto, spesso privo di sovrastrutture. Ma sicuramente oggi chi siede in tribuna di fronte al palco si aspetta di ascoltare qualcosa che lo solleciti all’emozione e alla riflessione. Non un semplice ascolto, ma un viaggio, insomma. E credo che chi decide di ascoltare qui voglia incontrare anche la risposta della natura alla magia della musica”

Gli ultimi anni hanno messo a serio repentaglio la fattibilità del cartellone. Prima la pandemia e poi la guerra in Europa.

“Nelle due precedenti edizioni siamo riusciti a trovare una soluzione che consentisse di salvaguardare i concerti evitando di coinvolgere artisti provenienti da zone ancora particolarmente esposte all’emergenza. Quest’anno la cosa è stata, se possibile, ben più complessa e, per quanto mi riguarda, più dolorosa”.

Lei, tra l’altro, già nelle settimane immediatamente successive all’aggressione russa ai danni dell’Ucraina, in un periodo in cui ovunque impazzava il Russia shaming, ha preso pubblicamente un’impopolare posizione a favore della difesa del patrimonio musicale russo e degli artisti russi che non avessero espliciti legami di supporto all’azione di Putin.

“Certo. Ho da subito considerato i Russi non pro-Putin alla stregua di vittime di un gesto che oggi nessuno di noi riesce a comprendere. Espellerli dal circuito solo in quanto russi avrebbe significato una violazione illogica e profondamente punitiva verso persone colpite solo in quanto nate in un Paese nel quale, in molti casi, non vivono più da tempo e con il quale hanno sempre maggior difficoltà ad identificarsi”.

Purtroppo, tra i tanti russi qui in cartellone manca Boris Berezovsky. Un silenzio assordante, il suo, visto che a La Roque è considerato una delle figure più attese e acclamate di sempre.

“Inevitabilmente, il suo nome è stato cancellato qualche ora dopo le assurde dichiarazioni da lui rilasciate in una trasmissione televisiva russa in cui, punzecchiato con provocazioni e battute, ha espresso posizioni francamente inaccettabili. Un atteggiamento che fatico a comprendere rispetto alla persona che conosco e che frequento da più di 30 anni. Continuo a pensare che, da istrione qual è, non abbia resistito alla tentazione di provocare a sua volta. Un errore grave che ho accolto con profondo rammarico, anche personale. Sono convinto che Boris abbia riflettuto molto sulle sue parole incaute ed avventate, e che in tempi meno drammatici possa trovare lo spazio per chiarire a sé stesso e al pubblico”.

Per il pubblico italiano, qualche numero rispetto all’edizione n°42 del Festival.

“110 concerti, 13 palcoscenici intrecciati a quello centrale dell’Auditorium du Parc, in un continuo viaggio esplorativo tra i luoghi più suggestivi del Luberon, 90mila biglietti previsti. E poche ore di sonno” (Ride).

Quante persone lavorano con Lei a questa impresa?

Qui sono 40 persone, tra staff e tecnici dei pianoforti, a cui vanno aggiunti i volontari, preziosissimi, e gli operai addetti a luci, scene, trasporto strumenti, servizio bar, boutique di vendita di dischi e gadget.

Quanto conta la squadra?

“Tutto. Senza queste persone, niente potrebbe accadere”.

Dove e come nasce la stagione? Quanto tempo occorre per costruire un cartellone così monumentale?

“Tutto ha inizio a Nantes, dove ho lo studio centrale. Lì, insieme al mio staff, ideiamo qualcosa come 1200 concerti all’anno. Pensiamo ad artisti, programmi, percorsi, cachet. La Roque è il sentiero principale di una rete che oggi ha ramificazioni in tutto il mondo.

Ci racconti meglio

“Nel 1995, a Nantes, c’è stata la prima edizione de La Folle Journée, titolo mozartiano per una manifestazione che da allora vede, in quattro giorni, centinaia di musicisti riversarsi nelle sale da concerto e in numerosi luoghi della città per un incredibile mosaico di concerti brevi, da comporre a seconda del gusto e dell’estro del momento, tutti legati da uno spunto tematico diverso di anno in anno. Visto il clamoroso successo ottenuto, la formula è stata successivamente esportata a Tokyo, Varsavia, Ekaterinburg, solo per citare alcuni poli. Parallelamente, curo altri Festival storici, come quello di Mont Saint Michel e di La Grange de Meslay”.

Un fienile medievale, quest’ultimo, divenuto una delle sale da concerto più suggestive del mondo…

“Sì, un patrimonio straordinario a due passi da Tour, scoperto da Richter in persona”.

E da ultimo, c’è la casa discografica

“MiRare rappresenta il suggello e il collante di questa ramificazione: la visibilità di un ascolto che rimane, rispetto all’istantaneità del concerto, la possibilità di riascoltare un interprete, di portarlo a casa, di riflettere sul suo pensiero. Il biglietto da visita con cui un giovane talento può essere avvicinato da un pubblico sempre più vasto”.

Torniamo a La Roque. Chi è, a Suo avviso, l’artista rivelazione di questa edizione del Festival?

“Difficile a dirsi in un nome solo. Straordinari sono stati i debutti di Mao Fujita e di Bruce Liu, entrambi giovanissimi eppure già incredibilmente consapevoli, colti, poetici. Meraviglioso ancora una volta è stato Vikingur Olaffson, e prevedo altrettanto avvincente il recital che tra qualche minuto Pavel Kolesnikov, in diretta radio, terrà su un programma dedicato a Marcel Proust. Ma potrei andare avanti con altri nomi…”

Quest’anno, il Festival ha avuto uno sguardo particolarmente attento anche ad alcuni dei suoi memorabili protagonisti recentemente scomparsi. Lupu, Angelich, Freire…

“Come sottolineavo poco fa, qui non costruiamo un cartellone che alla fine della manifestazione viene smontato ed ognuno torna a casa in fretta. Qui nascono storie, si incrociano percorsi destinati a mettere radici e a fiorire. Gli interpreti che Lei ha appena nominato sono pezzi di questa storia, e quindi di noi. Quando se ne sono andati, qualcosa dentro di noi è mancato irrimediabilmente. In questa edizione ci sono concerti che li ricorderanno, amici stretti che ne celebreranno l’arte, film che racconteranno le loro vite. Nelson Freire era una delle figure che hanno fatto il Festival, dalle origini allo scorso anno, quando è scomparso. Un signore immenso, una persona semplice e tenerissima”.

E nei fili della memoria, uno spazio ampio è stato dato ai trent’anni dalla scomparsa di Olivier Messiaen, con due memorabili concerti dedicati alla sua produzione pianistica.

“Un gigante che ancora il nostro tempo deve digerire e comprendere a fondo. Ne ho affidato il compito ad interpreti differenti per temperamento ed egualmente affascinanti nell’approccio come Momo Kodama e Bertrand Chamayou. Credo che il loro duplice contributo abbia determinato una pietra miliare nella storia del Festival”.

Da ultimo, in una battuta. Quale delle 42 edizioni occupa un posto particolare nel Suo cuore?

“Tutte. Ma sicuramente, la migliore la sarà la prossima”. E sorride.

Ci dia, a questo punto, qualche anticipazione.

Una, nata proprio qualche ora fa, dopo i loro due rispettivi concerti. L’intesa immediata e la stima reciproca tra due giovani inglesi di immenso talento: Benjamin Grosvenor e James Martin Bartlett. Già celebrato il primo, agli esordi il secondo. Nel 2023 li aspetto qui, per interpretare il Concerto per due pianoforti di Poulenc”.

E la storia continua.

Elide Bergamaschi