Basket – In memoria di Kobe Bryant: il ricordo di Matteo Soragna e degli Stings Lawson e Visconti

È la notizia più scioccante che abbia squarciato il mondo dello sport da molti anni a questa parte. Il leggendario cestista e icona globale Kobe Bryant è morto a 41 anni; con lui la figlia 13enne Gianna Maria, insieme ad altre sette persone nel tragico schianto dell’elicottero contro una collina a Calabasas, Los Angeles. Per raccontare la vita di Bryant non basterebbe un romanzo: venti stagioni Nba, cinque titoli, 2 Mvp delle finali, 18 All Star Game, due medaglie d’oro alle Olimpiadi 2008 e 2012 e una medaglia d’oro ai Mondiali 2007. Il numero 8 e il 24 sono stati ritirati e tra pochi mesi verrà inserito nella Hall of Fame. È stata un’icona totale: ha vinto un premio Oscar nel 2018 per il miglior cortometraggio animato (basato sulla sua lettera d’addio, “Dear basketball”). Kobe dai 6 ai 13 anni ha vissuto in Italia, seguendo il padre, anch’egli giocatore, a Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. Anche per questo domenica verrà osservato un minuto di raccoglimento su tutti i campi.
Per parlare di un numero uno non può che esserci il cestista mantovano numero uno di sempre, Matteo Soragna: «Il fatto che avesse un trascorso in Italia univa tutta questa comunità nel partecipare a tutti i suoi successi – afferma negli studi di SkySport24 – ma la sua portata mondiale e universale rendeva le persone partecipi di quello che faceva. Si immedesimavano in ogni suo successo, sentivano la rabbia agonistica parte della loro vita. E io sono uno di quelli, ho sempre avuto il desiderio di incontrarlo per stringergli la mano e conoscerlo. All’inizio della carriera ha avuto qualche difficoltà, ma la cattiveria e l’ambizione è quello che lo hanno spinto in certi momenti a non rispettare nessuno. Aveva il desiderio di non rispettare nessuno perché doveva prevalere quello che era il suo desiderio di far vedere chi fosse e che sarebbe diventato. Poteva piacere o non piacere, ma non dobbiamo guardare questo aspetto quanto piuttosto quello che ha rappresentato per ognuno di noi. Di solito in queste situazioni si dice “bisogna gioire per quello che ci ha lasciato”, ma in realtà quando si parla di personaggi così iconici abbiamo il desiderio di avere ancora di più, ed è per quello che stiamo soffrendo. Perché avremmo voluto ancora vedere quello che sarebbe riuscito a fare nei progetti che aveva avviato, dagli studios al basket femminile a tanto altro ancora».

Nato a Philadelphia e cresciuto in Italia, ma l’incontrastato regno del Black Mamba, l’inconfondibile soprannome di Bryant, è sempre stato Los Angeles. A due ora di macchina dalla città degli angeli c’è Oceanside, contea di San Diego, dove è nato il centro degli Stings Kenny Lawson: «È una situazione molto triste, non solo per lui e la sua famiglia, ma anche per le altre persone coinvolte – afferma – lo stesso si può dire del vicepresidente di Ferrara o di molte altre persone nel mondo che affrontano situazioni simili a questa. Ho sentito dell’incidente di Kobe subito dopo la sconfitta contro Forli e sono passato dall’essere deluso per la partita al realizzare che la vita è più grande del basket e tutti dobbiamo apprezzare e amare ciò che abbiamo, perché non sappiamo quando tutto può finire. Era la stessa sensazione provata dopo la partita contro Ferrara. Secondo me non si tratta tanto della sua eredità o di ciò che ha fatto come giocatore di basket, ma piuttosto di come situazioni come queste debbano far sì che tutti noi apprezziamo davvero i nostri cari e apprezziamo ogni piccola cosa nella vita perché può sparire da un momento all’altro. Come giocatore di basket la sua eredità sarà eterna e non potrà essere contestata da nessuno, ma soprattutto ci sono persone che hanno perso un padre, un marito, una moglie, un figlio e una figlia in un modo molto tragico e prego Dio che dia loro la forza per superare questa difficile situazione».
Esattamente come Bryant era ossessionato da Michael Jordan tanto da cercare di emularlo in tutto e per tutto, a suo modo lui ha creato una schiera sterminata di “discepoli”. Ragazzi cresciuti sognando le gesta di Kobe. L’ammirazione dell’ex capitano biancorosso Riccardo Moraschini, oggi all’Olimpia Milano agli ordini di Ettore Messina (che ha allenato Bryant nella veste di assistant coach dei Lakers nella stagione 2011/12) non è mai stata un mistero. Negli ultimi due anni in casa Stings l’ideale testimone è stato raccolto dalla guardia Riccardo Visconti: «Da piccolino ero invasato di Kobe, usavo il numero 8 per imitarlo e tagliavo la punta dei calzini per poterli usare come dei finti tutori al braccio come aveva lui, sempre per imitarlo quando giocavo con il mio canestrino in camera. È stato un esempio in tutto per tutto. Passione e determinazione, come per qualsiasi aspetto del gioco. Il perché è semplice: è Kobe Bryant. Sono davvero scosso».

Leonardo Piva