BORGO VIRGILIO La sua carta d’identità svela l’impensabile: mercoledì 1 ottobre Gianni Dall’Aglio, uno dei più rinomati batteristi italiani, orgoglio mantovano, ha compiuto 80 anni. Ha un’agenda ancora oggi piena di appuntamenti, tra concerti ed eventi vari. Non ha perso un briciolo del dinamismo e della curiosità che l’hanno portato a costruirsi una carriera favolosa, al fianco di autentici giganti della canzone. L’abbiamo incontrato nella sua casa di Cerese, dove vive con l’amata moglie Orietta.
Gianni, un bel traguardo…
«Mai avrei immaginato. Pensavo di arrivare ai 60, ma agli 80 proprio no. Sono giunti all’improvviso, come tutti gli avvenimenti cruciali della mia vita».
Ripercorriamola. Prima domanda: batteristi si nasce o si diventa?
«Nel mio caso si nasce. Anni di guerra: mia madre Iris riceve un disco americano, Sing Sing Sing di Benny Goodman, e lo ascolta in continuazione mentre è in dolce attesa. Io stesso, piccolissimo, me ne innamoro. Il senso del ritmo nasce da lì, come un dono di natura».
Il primo ricordo di Dall’Aglio alla batteria?
«Al circo Togni. Tutti erano attirati dai clown e dallo spettacolo in sè. Io mi feci sedere alla batteria e lì capii che non l’avrei più lasciata. Tant’è vero che a mio padre Gigi ne chiesi una in regalo. Avevo 6 anni».
I suoi genitori l’hanno assecondata?
«Sempre. Anche perchè a scuola ero un disastro. Non mi è mai piaciuto studiare, nemmeno la musica. Tant’è che sono autodidatta e la batteria ho imparato a suonarla ascoltando. Comunque, tornando ai miei genitori, a papà devo il primo incontro fondamentale della mia vita: quello con Adriano Celentano».
Ci racconti.
«Era il 5 settembre 1959. Col mio complesso, gli Original Quartet, veniamo ingaggiati per una serata alla “Guantara” di Salsomaggiore. In cartellone è previsto Celentano, già allora presentato come “il re del rock’n’roll”. Lo aspettano tutti, ma lui si fa attendere. Poi arriva trafelato lamentandosi perchè gli mancano il batterista e il chitarrista. Qui entra in gioco mio papà: “Lo provi, è bravo!” dice indicando me. Adriano mi scruta e fa: “Conosci Tutti frutti?”. Io: “Quale versione? Quella di Elvis Presley o quella di Little Richard?”. Lui sgrana gli occhi, sorpreso dalle mie conoscenze: “Uè, sei forte! Dai che proviamo”. Alla fine: “Ok, suoni come un grande”. Provino superato».
Con Celentano la sua vita svolta…
«Eh sì. Di colpo mi ritrovo a suonare davanti a 5mila persone, in giro per l’Italia. Posti mai visti, gente mai vista. Ricordo quando ho preso il treno per andare a Foggia: pensavo di sbarcare in un mondo nuovo, io abituato alla provincia mantovana dove ci conoscevamo tutti. Ero un bambino curioso, ascoltavo i più grandi, captavo e poi raccontavo a casa».
E la scuola?
«Arrivato alle commerciali, in accordo coi miei, decisi di non andarci più. Ero spesso in giro e i professori non capivano: “Cosa suoni? La batteria?!”. Tuttavia, mia madre mi fece giurare che prima o poi avrei ricominciato a studiare “perchè un figlio ignorante non lo voglio”. Così qualche anno dopo entrai al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano».
Abbiamo parlato di quel 5 settembre ’59. Altre date decisive?
«Un anno intero: 1967. Scrivo Pugni chiusi. Mi sposo con Orietta, che avevo conosciuto 5 anni prima a Genova dov’ero in tour con Adriano. Nasce mia figlia, che chiamo Iris in memoria di mia madre. E vinco pure al Totocalcio».
Cominciamo da Pugni chiusi.
«La scrivo ad orecchio, assieme ad altre canzoni. Piace a mia moglie, così la faccio sentire a Demetrio Stratos, voce del nostro gruppo I Ribelli, e piace anche a lui. Casualmente la sente Luciano Beretta e mi dice “Cal chi l’è un sucès, ti scrivo il testo”. Ed effettivamente è stato un enorme successo».
E la vincita al Totocalcio?
«Quello l’ho sempre considerato un regalo dal cielo di mia madre. Come a dirmi: sei stato bravo a trovare la tua strada, ora ti do io la spinta definitiva. In effetti, a raccontarlo non ci si crede».
Prego.
«Non seguivo il calcio e non avevo mai giocato una schedina. Una sera, mi ricordo che c’era una nebbia fittissima, passo davanti a una tabaccheria dal nome profetico: “Dei Vincitori”. Decido di provarci, mentre il titolare mi spinge a fare in fretta perchè sta chiudendo. Compilo la schedina in modo del tutto casuale. Il giorno dopo sono a Ferrara con I Ribelli, entro in un bar e vedo esposti i risultati delle partite. Mi ero quasi dimenticato della schedina, la estraggo, controllo… e scopro che ho fatto 13! Pazzesco. Ho vinto 13 milioni: con 12 mi sono pagato la casa, col milione restante ho fatto un regalo a mia sorella».
Lei è stato uno dei musicisti di fiducia di Lucio Battisti…
«Un giorno Lucio viene con Mogol al Clan, per far sentire a Celentano i suoi primi pezzi. Ad Adriano piace Per una lira, ma non è il suo stile e così la affida a noi Ribelli. La incidiamo ed ha successo. Pochi anni dopo Battisti decide di fare la sua versione e chiama me alla batteria: “Ma dobbiamo fà ‘na cosa diversa rispetto alla vostra”. Mi viene l’idea di velocizzare il ritmo sul finale e lui ne è entusiasta. Con Lucio ho inciso una quarantina di pezzi, molti di una bellezza senza tempo e viscerale. Mi diceva: “Devi sona’ rilassato ma nervoso”. Ancora oggi mi emoziono se ascolto Il mio canto libero. L’altro giorno mi è successo sentendo casualmente per radio La collina dei ciliegi: c’ero io alla batteria, mi sono… riconosciuto in una serie di passaggi».
Celentano e Battisti…
«Due autentici geni. Adriano sregolato e imprevedibile. Lucio di una raffinatezza unica, con un senso della melodia senza pari e una capacità eccezionale di personalizzare i suoni, le armonie e gli arrangiamenti».
Altra data da ricordare: 23 aprile 1972…
«Il duetto Mina-Battisti in tv. Ero uno dei cinque amici che Lucio arruolò per questo medley. Proviamo in treno, nel viaggio da Milano a Roma, convinti di andare a suonare solo per Lucio. Definita la scaletta, lui ci dice: “Ah, c’è anche Mina a cantare con noi”. L’ansia sale, mista all’eccitazione. Arriviamo in teatro, proviamo poco e male, ma non c’è più tempo: si va in onda».
E lì il miracolo…
«Esatto. Come se avessimo suonato insieme da sempre. Non una scollatura, non un’incertezza. Noi musicisti liberi di attingere al nostro estro, alla nostra creatività, perfettamente amalgamati. Perchè una volta i musicisti avevano licenza di suonare quel che sentivano. Oggi è impensabile. Alla fine dell’esibizione mi voltai e vidi l’orchestra che ci applaudiva convinta. Un’esperienza meravigliosa».
Nel 1978 c’è ancora il suo tocco in Pensiero stupendo di Patty Pravo…
«Ivano Fossati, l’autore del brano, mi dà carta bianca. Io non mi faccio pregare, ci metto la solita creatività per proporre suoni diversi. Ok, la versione piace. Arriva Nicoletta per inciderla, la ascolta e mi fa: “Sei meraviglioso, come sempre. Adesso sono ca… dei batteristi che suonano con me, che dovranno studiarla e impararla».
Tra decine di altre collaborazioni, un giorno decide di mettere la sua esperienza al servizio dei più giovani…
«Dal 1986 al 2020 ho gestito una scuola per batteristi in via Franchetti, a Mantova. Esperienza bellissima, perchè io con i giovani mi sono sempre trovato bene. Oltre ai consigli musicali, cercavo di inculcare loro i valori in cui credevo, quelli da “ribelle al contrario”: la famiglia, la spiritualità, il rispetto di se stessi e degli altri. In ambito musicale, ai ragazzi dicevo: non imitate me, ma siate originali, createvi un vostro stile».
Torniamo a sua moglie Orietta. Cosa accadde nel 2008?
«Aveva una malattia congenita, le serviva un trapianto di rene. E gliel’ho donato io. È stato un gesto d’amore e solidarietà umana, che a me per primo ha restituito grande vitalità. Da lì ho intrapreso un percorso nel volontariato ospedaliero che mi ha arricchito come mai avrei creduto. Sono vicepresidente di “AmicoRene”, da 13 anni organizziamo una serata al Sociale per promuovere la donazione degli organi. Quest’anno l’appuntamento sarà il 20 novembre. Anche qui c’entra la musica, che ha sempre fatto parte della mia vita. Anzi, “è” la mia vita».
Come ha festeggiato questi 80 anni e come li definirebbe con un aggettivo?
«Li definisco incredibili. Li ho festeggiati con la famiglia e gli amici, tante belle sorprese».
Ha qualche rimpianto? Qualche rimorso?
«Niente di tutto questo. Ho avuto più di quel che ho dato».
Gabriele Ghisi




































