Natalie Dessay Regina della notte al Bibinea

MANTOVA Il passo dell’artista non è nel ruggito dell’applauso che fiocca, sull’impulso dell’ultima nota, ma nella cappa di silenzio che cala sull’uditorio, dilatandosi fino all’ultima sedia e lento a risalire, come se nessuno volesse uscire dal sortilegio. La serata di martedì 24 ottobre, secondo appuntamento della Stagione mantovana di Tempo d’Orchestra, trovava un Teatro Bibiena vicino al tutto esaurito. D’altronde, la data meritava di non mancare, perché sul palco, accompagnata dal fedelissimo Philippe Cassard al pianoforte, era attesa la voce di Natalie Dessay. Leggendario soprano di coloratura, sublime Regina della Notte così come in tanti altri ruoli, l’interprete francese ha delineato un avvincente periplo attraverso la prospettiva scorciata di sguardi femminili, accostati in un bouquet di preziosa fragranza. Fanny Mendelssohn, Clara Wieck Schumann, Alma Mahler, per iniziare, prima di affidare la parola a uomini che parlano e scrivono di donne. Prospettive differenti attraverso cui indagare il mondo, il cuore. Il velluto del pianoforte di Cassard, già da subito screziato, evocativo, lontano, era tappeto e fondale, trama perfetta, in una compenetrazione assoluta, sottile, intimamente complice, per lo snodarsi de canto. Frasi disegnate senza spigoli, senza consonanti, tenendo salde le chiavi della parola in ogni sua risonanza emotiva, ma anche di ogni non detto, che del detto è contrappunto. Un legato malinconico e intenso per una voce oggi nobilitata da venature autunnali, lontana, dopo anni a combattere contro un male subdolo, dalle prodigiose stilettate di un tempo, ma certamente più calda, più colloquiale, perfetta per esaltare le dimensioni cameristiche. Ogni parola in questo duo d’eccezione era, sulle rispettive corde, scrigno e ricettacolo di tinte, umori, ferite e aneliti. Quelli di Fanny Mendelssohn, universo di sorprendente ricchezza musicale, fiorito all’ombra del fratello. E quelli, più ambiziosi anche nella diversa grana strumentale, di Clara Wieck, ammiccanti all’inevitabile faro schumanniano, intrisi, in un legame a doppio filo, di rimandi e di vaghe, forse involontarie citazioni, nell’irrequietezza, nello scalpitare segreto del pianoforte, magnifico sismografo di un cuore in tumulto, insinuatore di spunti subito tradotti in canto, parola, inesprimibile moto dell’animo. E quando il testo del prediletto Rὒckert suggerisce di lasciar parlare gli occhi per comprendere la sincerità del cuore, il commento pianistico si ritirava, malizioso, sibillino, in un sussurrare che era vertiginosa onomatopea. Prima di tuffarsi nelle atmosfere francesi, un ultimo sguardo, affidato alla penna di Alma Mahler, nata Schindler. Forse, del trittico, la figura più sorprendente, nella quiete apparente delle sue pagine, delibate sul ritmo di una ninna nanna pervasa da armonie turbate, avvolta da un inesprimibile senso di spaesamento. Nella dolcezza di una scrittura colta e audace, si faceva largo il senso della fine, del naufragio, l’incombere della dissoluzione, del rimpianto sublimato in un mezzo sorriso. E, chiusa la parentesi mitteleuropea, Dessay, in una serata tutta in crescendo, varcava il Reno e riapprodava in terra natale dove, con sopraffina eleganza, inanellava un percorso tutto francese a cominciare dallo Chausson di Canson Perpetuelle e dalla sua evocativa mestizia. Il était revenu, mon amant, cantava struggente il testo, mentre il pianoforte distillava memorie raggrumate in cristalli. E il Poulenc dardeggiante del melologo La Dame de Monte Carlo, firmato a quattro mani su testo di Jean Cocteau, le tinte color seppia di una Francia da cartolina, cinematografica e seduttiva ma altrettanto sfuggente nelle armonie, nell’ironia lieve e graffiante, servita fredda, su vassoio prezioso, fino al gran finale, ipnotico, con l’acuto infinito, micidiale, lanciato sulla punta del palco, quasi in braccio alla platea, in un simbolico volo d’angelo. Fino all’immancabile Debussy – un abisso di silenzi e di oscurità – di Mes longs cheveux tratto da Pelléas et Mélisande, con i lunghissimi capelli non come emblema di seduzione ma come ponte segreto per una comunicazione criptica, oscura, inespugnabile in quanto fatta di parole e mondi sconosciuti ad altri. Il periplo si chiudeva sulla danzante, arguta leggerezza di un’aria tratta dal Faust di Gounod. Un ultimo incanto, dopo la danzante, arguta leggerezza di una pagina tratta dal Faust di Gounod: Porgi, Amor, adamantino, mozartiano omaggio al tempo che era, ma anche all’eterno presente di una voce che non smette di turbare e di stupire. Molti lo danno come il tour di addio alle scene dell’interpete. A noi piace pensare ad un arrivederci, con tante pagine ancora da ascoltare, e tante serate di grazia come questa.

Elide Bergamaschi