Turandot il 22 e 24 marzo al Teatro Municipale di Piacenza

PIACENZA Nel centenario della morte di Giacomo Puccini, va in scena al Teatro Municipale di Piacenza venerdì 22 marzo alle 20 e domenica 24 marzo alle 15.30 Turandot, l’ultima opera, rimasta incompiuta, del grande compositore lucchese. Terzo titolo della Stagione Lirica 2023/2024 della Fondazione Teatri di Piacenza, Turandot, dramma lirico in tre atti e cinque quadri su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, dalla fiaba teatrale omonima di Carlo Gozzi e con il finale del terzo atto di Franco Alfano, vedrà la direzione musicale di Marco Guidarini, nell’allestimento firmato da Giuseppe Frigeni per il Teatro Comunale di Modena nel 2003 e ripreso da importanti teatri in Italia e all’estero, ispirato nelle sue linee forti ed essenziali alle leggi estetiche e filosofiche che sottendono alla tradizione culturale cinese.

Regia, coreografia, scene e luci di Giuseppe Frigeni sono riprese da Marina Frigeni con costumi di Amélie Haas. Di rilievo il cast formato da Leah Gordon (La principessa Turandot), Giacomo Prestia (Timur), Angelo Villari (il principe ignoto Calaf), Jaquelina Livieri (Liù), affiancati da Raffaele Feo (L’imperatore Altoum), Fabio Previati (Ping), Saverio Pugliese (Pang), Matteo Mezzaro (Pong) e Benjamin Cho (Un mandarino). In buca l’Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini; l’opera vedrà la presenza del Coro Lirico di Modena e del Coro del Teatro Municipale di Piacenza preparati da Corrado Casati e delle voci bianche del Teatro Comunale di Modena preparate da Paolo Gattolin, nella coproduzione che vede uniti i Teatri lirici di Modena, Piacenza, Ravenna e Rimini.

A introdurre Turandot al pubblico, giovedì 21 marzo alle 18 alla Sala dei Teatini a ingresso libero, saranno come di consueto gli studenti del Liceo Respighi di Piacenza, grazie al progetto #AperiOpera che li vedrà coinvolti tra recitazione, musica, approfondimenti storici e collegamenti interdisciplinari, con il coordinamento delle docenti Elena Metti e Arianna Gazzola.

Giunto all’ultimo titolo di una mirabolante vicenda compositiva, Puccini nel 1920 si era infervorato per la fiaba Turandotte di Carlo Gozzi, e soprattutto per la figura della protagonista, principessa cinese fiabesca dai sentimenti congelati dall’eccesso di orgoglio e dal risentimento verso il genere maschile. La necessità di un soggetto nuovo, che si differenziasse da ogni altro precedente, lo aveva portato nel mondo favolistico dopo una carriera spesa su drammi realistici e sentimentali, certamente attratto dalla possibilità di sfruttare lo spettacolo, il gesto, i profumi orientali. L’evasione verso le zone del mito, dell’esotismo senza tempo, era del resto la risposta che Puccini intuiva necessaria alla mutata atmosfera postbellica, ormai disillusa verso gli argomenti realistici. La sua volontà fu comunque anche in questo caso quella di convertire la fiaba in “cervelli moderni”. La fanciulla capricciosa di Gozzi diviene così una figura altera, algida, terribile, che si è incaricata di vendicare lo stupro subito da un’antenata sacrificando i pretendenti alla sua mano attraverso l’ardua soluzione di tre enigmi che nessuno di loro riesce a risolvere. La suggestione di un colore musicale esotico fu nutrita da alcune melodie ascoltate su un carillon che apparteneva al console italiano in Cina e finite poi nella partitura dell’opera. Rimasta inconclusa per la morte dell’autore, l’opera venne ultimata dal compositore Franco Alfano su commissione di Casa Ricordi e di Arturo Toscanini che diresse l’opera alla Scala nel 1926.

“Turandot non è una storia d’amore – commenta il regista Giuseppe Frigeni – ma lo scacco di un’illusione amorosa nel ribaltamento dei giochi di potere, delle leggi di un potere arcaico, attraversato dal cinismo maschilista, l’ambizione e l’arroganza di Calaf. Turandot non è la carnefice leggendaria, ma una donna ferita nel proprio orgoglio, vittima di una violenza maschile atavica”.