PIACENZA Un titolo che fa paura. Per il pensiero che corre, immediatamente, alla divina Maria Callas, di cui è da sempre glorioso passaporto per l’immortalità; per quella scrittura impervia che costringe gli interpreti ad inventare se stessi e a spingersi verso tessiture in cui è e rischioso avventurarsi. Ma anche per quelle tematiche che covano, scabrose, sotto il manto della sempreverde storia antica, nell’ostilità tra Galli e Romani. La castità sacerdotale violata, i tradimenti, il matricidio accarezzato per un lungo attimo, la condanna a morte sul patibolo che debolmente lava via il sentore di una vicenda torbida ed angosciante. Norma è opera scivolosa, monumentale, arditamente sperimentale; un vero e proprio laboratorio di un sospinto protoromanticismo teatrale che ancora oggi, lontani da quel clamoroso fiasco datato 1831 alla prima rappresentazione, fa della sua materia fuoco che scotta. La Scala non la vede in cartellone da quasi mezzo secolo. Qualcosa vorrà pur dire. C’è voluto il coraggio di un magnifico teatro di provincia e di Cristina Ferrari, valoroso timoniere in capo al Municipale di Piacenza, per regalare il Bellini celeberrimo quanto poco frequentato di questa rarità ad un pubblico che lo scorso venerdì 22 ottobre, con replica domenica 24, festeggiava il ritorno alla capienza piena dopo interminabili mesi di mortificante distanziamento. Applausi ed emozione palpabili, solo offuscati dall’isolato muggire di alcuni commenti piovuti dai bunker di qualche palchetto, imbarazzanti per il gusto di chi ascolta quanto ed ancor più per la presunta intelligenza di chi li sputa. Al di là di questi dettagli, che per alcuni continuano a rappresentare diritti legittimamente acquistati insieme al prezzo del biglietto, un debutto di stagione, si diceva, non impeccabile ma sicuramente memorabile per tante ragioni, a cominciare dal prezioso cast in cui giganteggiava, per mole ma soprattutto per statura vocale – uno strumento impeccabile, dalla tecnica smagliante e dalla precisione millimetrica – Angela Meade. Il soprano americano, reduce dal Boccanegra al Festival Verdi di Parma, impersonava una Norma statuaria, aurea nello scolpire frase per frase ma poco incline a sfaccettare le tante sfumature del suo così complesso personaggio. Ancora una volta, insieme al vibrato sempre eccessivo su ogni nota, abbiamo trovato un’interprete più attenta allo smalto vocale che all’adesione emotiva. Accanto a lei il Pollione di Stefano la Colla sfoggiava una vocalità stentorea e baldanzosa, dal timbro luminoso e dai fraseggi rifiniti. Peccato un’intonazione mai a segno negli acuti, tutti sovrabbondanti (ma si diceva, la scrittura chiede peripezie). Accurata ed efficace, in un ruolo tutt’altro che semplice, l’Adalgisa di Paola Gardina, sommersa dalle secchiate di decibel della Meade ed in comprensibile affanno nella tessitura acuta, ma duttile ed attenta nel disegnare un personaggio “minore” ed al tempo stesso cruciale della vicenda. Bravi anche la Clotilde di Stefania Ferrari ed il Flavio di Didier Pieri. La bacchetta talentuosa di Sesto Quatrini, alle prese con la sfinge di una partitura che chiede più o meno tutto ed il suo opposto, strigliava l’Orchestra Filarmonica Italiana con tempi incalzanti, ammiccando al lato guerresco della vicenda ma solo abbozzando quello intimo, che dell’opera è il motore pulsante. La regia di Nicola Berloffa, sommaria nel complesso ma non priva di una certa efficacia nei quadri estremi, spostava l’azione dalle Gallie remote a non meglio precisati cortili interni di quelli che erano stati palazzi nobiliari di un Ottocento inquieto, dalla cui aristocratica bellezza ferita spuntavano soldati feriti e mutilati (il coro del Teatro Municipale, ottimamente preparato da Corrado Casati), con tanto di stampelle e bastoni. Attorno, niente foreste sacre. Niente selva da cui mandare odi alla luna. Solo il mormorio pacato di una natura che occhieggia dalle persiane diroccate, e dal buio che avvolge l’ingresso ad arco del cortile, confine tra il qui e l’altrove, e da cui avrebbe fatto il suo ingresso la sacerdotessa. Profumo di guerre di indipendenza, di mondi prossimi al collasso. Profumo di una fine che per altro è la dolorosa alba di una possibile vittoria. Tra questo mondo in macerie, ad emergere era la regalità marmorea ed al tempo vellutata di Michele Pertusi, un alieno nel cast, esempio di un canto che è meditazione, saggezza, sguardo superiore. Bellezza srotolata con un’eleganza che ne rende semplice e assoluto il dire. Tanti applausi e qualche fischio, immancabile ingrediente, quest’ultimo, di un’idea di teatro che si dice popolare ma che a volte basterebbe definire volgare.
Elide Bergamaschi