MANTOVA Ricordare o anche solo parlare di quello che sono state le deportazioni, il disumano dei campi di concentramento per molti è stato per lungo tempo impossibile. Una narrazione che andava oltre l’umanamente comprensibile, al di là di ciò che la mente e la comprensione umana potessero immaginare: è forse per questo che tanti dei sopravvissuti per anni non hanno raccontato le loro storie di deportati chiudendosi nel silenzio, anche con le persone più care portandosi dentro quel peso enorme che il tempo, forse, poteva provare a cancellare ma che tornava prepotente ogni volta che quella serie di numeri tatuati sul braccio raggiungeva lo sguardo facendo riemerge impetuoso la memoria di quella storia indicibile, incomprensibile, distruttiva.
Di questo ha parlato Daniel Vogelmann, fondatore della casa editrice “La giuntina” nata in ricordo del padre Schulim, sopravvissuto di Auschwitz dove fu deportato all’inizio del 1944. Una storia, quella di Daniel, comune a tanti figli di deportati cresciuti tra vicende taciute, ricordi mascherati, fatti inenerrabili riemersi solo dopo anni. Non è facile essere figli di deportati e non lo è convivere con quella storia: «c’è chi non ha mai saputo nulla dei genitori o addirittura di essere ebreo». Una negazione forse nata per il tentativo, magari riuscito o magari vano, di nascondere quella parte di storia per tanto rimasta nascosta tanto che quando qualcosa cercava di riportarla a galla nascevano scuse, giustificazioni per spiegare agli occhi di non sapeva. Ecco, dunque che, come ricordato da Vogelmann, «c’erano genitori che mostrando il numero di matricola tatuato sul braccio (quelle cifre che per chi entrava nei campi di concentramento diventata la nuova “identità”, ndr) diceva essere il numero di telefono».
Storie, come detto, che si rispecchiano in quella di Vogelmann, figlio di un uomo sopravvissuto alla Shoah, e nato dal secondo matrimonio del padre nel 1948. Una vita, quella di Daniel, segnata dal dolore per la perdita di una sorellina, Sissel, mai conosciuta e diventata a soli 8 anni vento, con la madre Anna, nelle camere a gas. Una vita spezzata di cui non si parlava, così come di ciò che circondava la vita precedente al 1948 dal padre Schulim che mai parlò della deportazione. Ecco allora che quando la memoria cerca di essere dimenticata diventa ancora più importante raccontare a chi non sa, a chi ancora non c’era.
Valentina Gambini