MANTOVA Raccontare una storia mettendo anche a nudo le proprie debolezze e quella parte di sé che può fungere anche da insegnamento per gli altri: è questo une dei fini dell’autofiction, generale letterario di cui hanno parlato due scrittori, per certi versi simili e per altri molto diversi: Walter Siti e Paolo Giordano incalzati dalle domande di Federica Velonà.
Una narrazione in prima persona, che prende le mosse dalla realtà fattuale, ovvero da eventi veri, che viene però arricchita da eventi di fantasia. Un genere a cui Siti e Giordano sono arrivati in modi diversi: il primo prende spunto dall’autobiografia – che tanto andava di moda negli anni ‘80 – con l’ambizione di scrivere qualcosa che potesse «tirare fuori dal proprio “io” degli aspetti esistenziali, delle regole generali». Ben diverso, invece, il percorso che ha portato Giordano a questo genere: qualcosa scatta in lui durante la pandemia. «In quel periodo ho smesso di leggere narrativa di finzione: non ci credevo più. Mi interessava solamente il fattuale, leggevo solo saggistica così – spiega – mi sono avvicinato all’idea di scrivere in un modo che potesse essere anche fattuale. Ciò che mi attrae dell’autofiction è il racconto di ciò di cui ci vergogniamo».
Il rischio, però è che oggi tutto questo venga sempre più soppiantato da una tendenza che sembra allontanare dalla scrittura quei temi di reale importanza – l’assetto geopolitico o il clima, per citare alcuni esempi portati da Siti. Una conseguenza forse frutto anche di una serialità che sta contagiando sempre più anche la narrativa prosciugandone ogni risorsa. Quale può essere, dunque il mezzo in grado di unire finzione e temi di rilevanza? Per gli autori è ciò che emoziona lo scrittore in primis e quindi anche il lettore: emozione che per Giordano si traduce in “commozione” che diventa per Siti “ciò che mi fa tremare”.
Valentina Gambini