Il fuoco di Sara Mingardo nello scrigno dell’Incoronata

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Sabbioneta Con le sue sette spade, una per dolore, Maria Addolorata fissa di fronte a sé il visitatore che varchi lo scrigno della Chiesa dell’Incoronata, a Sabbioneta. Della città ideale voluta da Vespasiano Gonzaga, è questo uno dei vertici assoluti di fascino e di storia, con la sua pianta ottagonale che, guardando ai battisteri medievali, cita apertamente la consorella lodigiana, di quasi un secolo precedente. La scorsa domenica – a chiusura della seconda delle tre settimane del Sabbioneta Chamber Opera Festival -, complice la giornata di sole, le visite guidate ai luoghi della cultura, ma soprattutto un concerto imperdibile già sulla carta, a giungere nel Pantheon gonzaghesco, dove lo stesso Duca è sepolto, era una piccola folla che ne stipava ogni angolo. Nel suo saluto iniziale, don Samuele Riva ha ripercorso le parole di Dostoevskij sulla bellezza come salvatrice del mondo, per introdurre ad un viaggio attraverso alcune tra le pagine più intense e ispirate dell’intera letteratura musicale. A dipanarle, l’Accademia degli Astrusi che la guida di Federico Ferri conduceva, con impercettibili quanto efficaci cenni, in un’operazione di alta oreficeria nel frantumare e ricomporre i mille riflessi di frasi sempre già intrise di canto. E, soprattutto, la classe infinita di Sara Mingardo; una voce di cera, così fluida da lasciarsi ammirare anche in controluce, nella sua chiaroscurale filigrana di accenti, trapassi, indugi. L’annunciata indisposizione ne velava appena il timbro ma non ne minacciava il proverbiale calore, né appannava una naturalezza che, guidata dalla bussola di una tecnica inappuntabile, sapeva affiorare aggirando il dato contingente, a vestire le pagine proposte di accorata devozione, di carnalissima castità. Poche come lei sanno pescare dalla parola il segreto della sua intrinseca risonanza, l’eco lunga del suo più profondo significato. Così da subito, i nove numeri del vivaldiano Nisi Dominus, su testo del Salmo 126, rilucevano nei riflessi fiammeggianti del testo, mentre gli archi disegnavano operosi un fitto reticolo contrappuntistico che inattese sospensioni caricavano di forte impatto espressivo. Ma era nello Stabat Mater di Pergolesi, per eccellenza il canto del dolore di Maria di fronte al Figlio crocifisso, che quel teatro spirituale si faceva a tutti gli effetti sacra rappresentazione, viaggio mistico dentro al mistero divino che la musica scioglie e riannoda attraverso la voce umana, come a sottolineare nell’uomo lo strumento prediletto del disegno di Dio. Con il contralto veneto, sorprendente comprimaria degna di tanta interprete, il talento sorgivo della giovanissima Maddalena de Biasi, finissima tessitrice, anche lei, di uno straordinario periplo nel labirinto del cuore umano, dall’angoscia alla materna premura, dallo strazio alla composta rassegnazione. Due voci per farne una, in una complicità assoluta frutto dello stesso acceso sguardo nello scandagliare, attraverso le venti stanze della Passione, il vibrante affresco dell’anima scolpito dal compositore jesino, pochi mesi prima della morte, nel suo ampio, solenne ventaglio che dal dolore porta alla speranza, alla vittoria della luce sulle tenebre.