Morì a sei anni sulla minimoto, quattro mesi al padre di Dosolo

DOSOLO – All’incirca sei anni e mezzo fa era rimasto gravemente ferito cadendo dalla propria mini-moto, al Racing Park di Viadana. Una settimana dopo quell’incidente però, il piccolo Marco Scaravelli, 6 anni di Dosolo, si era spento all’ospedale Papa Giovanni di Bergamo a seguito del gravissimo trauma cranico riportato nell’incidente. Per quella morte la procura di via Poma aveva quindi chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio del padre Cristian, circa l’ipotesi di reato di omicidio colposo. La dinamica del sinistro, occorso il 10 luglio 2016, era stata descritta all’epoca, così come poi in fase dibattimentale, dallo stesso genitore: «Ho tirato la cordina per riaccendere la moto. Quel giorno faceva un molto caldo e volevo evitare di spingerla fino al gazebo, distante una quarantina di metri. Marco, già in sella a motore ancora fermo ha iniziato ad accelerare. E così la moto è partita di scatto, lui si è sbilanciato all’indietro, spaventato. E così è andato al massimo. Ha sfiorato un altro bambino, poi una transenna e infine dritto sulla piantana in ferro del cancello, dove ha battuto la testa». In tale circostanza soccorso dall’eliambulanza dell’ospedale Civile di Brescia era stato trasportato al Papa Giovanni di Bergamo, dov’era poi deceduto dopo una settimana di agonia. La famiglia aveva acconsentito al prelievo degli organi: reni, fegato, polmoni e cuore. Tra i vari testimoni escussi in fase d’istruttoria anche quella di un altro genitore presente al momento del tragico schianto. Stando a quanto da lui riferito, dopo essere stato tirato il cordino il veicolo sarebbe letteralmente partito a razzo raggiungendo in pochi secondi la velocità di circa 50 chilometri orari. Elemento, quello relativo alla particolare potenza della mini-moto, confutata in un certo senso anche dalle dichiarazioni del consulente tecnico della difesa. Secondo il perito infatti il mezzo sarebbe stato troppo potente per dei bambini di quell’età, sollevando altresì dubbi di sorta circa l’effettiva idoneità dell’acceleratore nonché sul casco indossato da Marco, ritenuto nella fattispecie di taglia troppo grande. Perplessità, soprattutto la prima, che aveva indotto il giudice a disporre un’ulteriore perizia tecnica ma stavolta d’ufficio. Ma a parlare in aula era stato chiamato anche lo stesso imputato. Ricostruendo così nel dettaglio la vicenda, sulla falsa riga della versione da lui già resa subito dopo il fatto, l’uomo aveva quindi aggiunto: «Non sapevo che fosse pericoloso, altrimenti non avrei mai tirato la corda per riavviare la moto che già “calda” è schizzata via da me senza quasi che me ne accorgessi. Ho provato ad afferrare al volo Marco ma non ci sono riuscito». Ieri mattina, al termine del processo istruito a suo carico l’imputato è stato quindi condannato dal giudice Enzo Rosina alla pena di 4 mesi di reclusione, con pena sospesa, così come richiesto in requisitoria dal pubblico ministero Giulio Tamburini.