Anna Kravtchenko incanta alla Casa della Musica di Parma

PARMA È stato il talento straripante di Anna Kravtchenko ad inaugurare, lo scorso 28 marzo, la rassegna organizzata dalla Società dei Concerti alla Casa della Musica di Parma. Un esordio ad alta temperatura emotiva, sulla carta affidato all’intrepido Préambule che apre il mosaico schumanniano di Carnaval, ma che invece, a sorpresa, trovava il lamento su una corda del Largo e Mesto, incastonato nella beethoveniana Sonata op. 10 n°3. Disperato, aulico, perfetto canto funebre per Karkhiv, la città in cui la pianista è nata e si è formata, prima di trasferirsi in Italia. E dalle macerie di tanta desolazione, l’affiorare della sezione centrale, sorprendentemente mossa da un passo eroico, patriottico, ne rendeva il canto un irriducibile Va’ pensiero dell’est, galleggiante sulla catastrofe, fiero seppur destinato a spegnersi tra singhiozzi, silenzi, foglie morte. Il Beethoven dell’assenza, degli abissi, chiamato a dare la cifra ad una serata in cui proprio l’intimismo di una confessione a cuore aperto era la bussola di un temperamento, quello dell’artista ucraina, dedito alla rapinosa tentazione di cercare, nelle pagine, i tratti segreti, le irregolarità, le asimmetrie. Uno sguardo che da sempre, sin dalla clamorosa affermazione, a soli sedici anni, al Concorso Busoni nel 1992, indugia sul dettaglio, sul particolare elevato a ricettacolo del tutto, ma anche un grimaldello che ne forza le serrature. Nel vorticoso monologo interiore di Kravtchenko, la galleria di persone e personaggi che Schumann riunisce attorno alle segrete Sfingi cifrate venivano risucchiate da un’inesorabile energia centripeta che finiva per plasmarne contorni e figure fino a restituirne, ora deformati ora finemente cesellati nella loro intima natura, le maschere e i volti. Allo stesso modo, divorata da una tensione che ne consumava l’anima, la dodicesima Rapsodia Ungherese di Liszt, spinta dal pungolo di un pianismo dalla facilità quasi pericolosa, era una folata unica, ebbra di visionario vitalismo, tanto da travolgere col suo fuoco il sottile gioco di rimandi che occhieggia maliziosamente al folklore magiaro. E in una serata dedicata al Folksong, all’anima popolare annidata nelle pagine attinte a spasso per la Mitteleuropa, il Čajkovskij delle Stagioni trovava nella voce di Kravtchenko, dopo tanto insidioso brivido, il gusto prezioso e confidenziale della miniatura, dello sguardo posato sull’incanto dei giorni senza festa. Un diario intimo sfogliato con pari pudore e stupore, alla scoperta di un tempo misurato in istanti. Febbraio baldanzoso; marzo introverso e curiosamente melanconico, tempo di disgelo e di disamore. E poi le insinuazioni di aprile, la sua mutevolezza, l’imprevedibilità del suo passo leggero e selvatico, con la cantabilità percorsa da un fremito inquieto. Maggio estatico, di una leggerezza spirituale, prima della brezza scapigliata di giugno. Fotogrammi per catturare il volto segreto del tempo. Il mese di mezzo, giugno, tempo di messi e di ricordi, di occasioni perse e di altre sprecate. E ancora, luglio villico, pastorale e popolare, festoso senza eccessi. Agosto che è già un gioco di folate selvagge provenienti da un bosco animato da misteriose presenze. In questi quadretti brevi e folgoranti c’è solo natura. L’uomo è a guardare, muto. Racconti senza parole, come lo sono alcune mirabili pagine di Tolstoj. Esitante il passo di ottobre. Quasi speculare all’iniziale Beethoven il novembre a perdita d’occhio, desolato, infinito. L’altro abisso. Fino al festoso, conciliante congedo di dicembre. Appalusi vivissimi, commozione palpabile. In sala, anche una delegazione di giovani giornalisti della redazione di Increscendo, il magazine online realizzato dai ragazzi della secondaria di Bozzolo e di Rivarolo Mantovano che, nei giorni precedenti il concerto, avevano avuto modo di incontrare la pianista ucraina in un’intensa intervista condotta a doppio filo tra musica e attualità.
Elide Bergamaschi