SANREMO – “Prendi una donna, dille che l’ami, scrivile canzoni d’amore…”. Basta l’attacco per capire che siamo in compagnia di Marco Ferradini, il “padre” di Teorema, la canzone che ha commosso e diviso l’Italia, non è solo un grande musicista ma un uomo dalla disponibilità disarmante con cui parleresti per ore di musica, geloso della sua privacy.
Sa che è stata un’impresa trovarla?
«Diciamo che non sono un fanatico delle apparizioni pubbliche, né tantomeno dei social».
Prima impressione a caldo sul Festival: c’è qualcuno che l’ha convinta in particolare?
«Ho apprezzato Mengoni, Giorgia – che però forse non aveva un brano adatto alla sua splendida voce – Modà e Mr. Rain».
E i nuovi cantanti? Sanremo è ancora in grado di produrre cultura musicale?
«Non vorrei sembrare troppo severo, ma temo che nessuna delle cose che ho sentito lascerà il segno. E sa perché?».
Dica pure.
«Perché viene completamente trascurata la melodia. E non perché, come sento dire, non “va più di moda” ma perché non sanno farla. Oggi è tutto omologato e c’è la tendenza a scimmiottare cose che non ci appartengono come il rap. E infatti quello a cui assistiamo è un prodotto surrogato, che però le radio impongono».
Però poi è sempre la vecchia guardia a meritarsi le standing ovation. Le esibizioni di Pooh, Ranieri, Morandi e Al Bano hanno incantato il pubblico in sala e anche i milioni di telespettatori che hanno seguito il Festival da casa.
«Parliamo di artisti che hanno fatto la storia della musica leggera italiana e che sanno trasmettere emozioni. Le confesso che mi sono messo a cantare anch’io davanti alla tv quando è entrato in scena il trio Morandi-Ranieri-Al Bano. La musica deve fare sognare, e le melodie – torno sempre lì – sono essenziali per scuotere l’emotività delle persone. Serve un ritorno al culto del bello nei testi, che non possono essere solo rabbia e dissenso a prescindere».
Due le sue partecipazioni sanremesi, nel 1978 e poi nel 1983: la prima, che fra l’altro coincise col suo esordio da solista, con il brano “Quando Teresa verrà”. Cosa ricorda di quell’esperienza?
«Fu incredibile. Appresi la notizia dal mio discografico: “Il pezzo è bello, vai a Sanremo”. All’epoca ero un’hippy, così mi feci prestare il camper da Pietruccio dei Dik Dik e partii per la riviera. Era lì che ricevevo i giornalisti, con cui prima delle interviste ci prendevamo il caffè insieme. Il problema è che il camper era senza riscaldamento, così di notte sgattaiolavo fuori per raggiungere l’albergo e andare a dormire, che lasciavo al mattino presto per rientrare in roulotte».
Arriviamo al 1981 e al boom di Teorema, il suo maggior successo che ha fatto cantare intere generazioni. Una canzone nata durante un viaggio “meditativo” in America…
«Nel 1980 uscivo da una delusione sentimentale e decisi di partire per staccare la spina e ritrovare me stesso. Scelsi come meta gli Stati Uniti. Fu un viaggio piuttosto lungo durante il quale le radio passavano in continuazione “Sailing” di Christopher Cross. Un martellamento che mi rimase dentro. Tornato a Milano decisi d’inserire quell’arpeggio nell’arrangiamento musicale di Teorema».
“Prendi una donna, trattala male…”: ai tempi in cui la compose era contro corrente, oggi probabilmente si troverebbe qualche rogna a causa del “politically correct” asfissiante che annulla la verità e uccide qualunque confronto.
«Il politically correct è ipocrisia allo stato puro. Teorema è una canzone d’amore, onesta e universale. Un manifesto verità per amanti delusi».
Nel 1983 è di nuovo sul palco dell’Ariston dove porta “Una catastrofe bionda”. Fu il famoso Festival in cui non venne permesso ai fotografi di scena di accedere al parterre, anche per via dell’innalzamento della balconata sul palco al fine di dare maggior risalto ai fiori, che per protesta decisero di scioperare e, per tale ragione, le fotografie di scena di quell’edizione furono rarissime. Ce la fornisce lei qualche istantanea?
«In realtà non ne ho molte, perché ero particolarmente concentrato nel preparare l’esibizione. Ricordo che eravamo in tantissimi (36!), tra cui Vasco Rossi che lanciò “Vita spericolata”».
In che rapporti era con la rockstar di Zocca?
«In quell’edizione ci incrociammo solo dietro le quinte, ma le do una chicca: nel 1979 feci insieme a lui e ad altri otto colleghi un tour nelle discoteche italiane. Si vedeva subito che era una persona vera, con l’atteggiamento del vincente. Vasco riusciva a farsi sempre perdonare da Bibi Ballandi quando arrivava in ritardo».
Sappiamo che anche sua figlia Marta Charlotte ha intrapreso la carriera musicale. Non poteva essere altrimenti.
«Marta ha la musica nel sangue e già da piccolina passava le ore davanti alla mia chitarra. Diplomata in pianoforte, ha già presentato alcuni singoli dal discreto successo e mi accompagna sempre in tournée. Un grande orgoglio».
Matteo Vincenzi