“La fanciulla del West” riscuote grande successo al Ponchielli

CREMONA Un autentico trionfo ha salutato, lo scorso 23 gennaio, al Ponchielli di Cremona, la recita pomeridiana – l’ultima del ciclo di produzioni di OperaLombardia – de “La fanciulla del West. Ovazioni, commozione, meraviglia da parte di un pubblico sempre vivo e, questa volta, arricchito da una copiosa (e rumorosa) presenza di giovani. Titolo raro, insidioso, complesso, che come pochi altri rivela la sapienza di Puccini nell’immergere il pennino nel più sanguigno calamaio delle vicende narrate, restituendone con rara sapidità lo spirito e il sapore. Qui, dopo la Roma di Tosca e la Nagasaki di Madama Butterfly, prima della Cina arcaica di Turandot, è il leggendario Ovest americano l’orizzonte brullo e desolato a fare da cornice alla vicenda. La scrittura densa, grumosa, tutta balze e sussulti, evoca i tratti aspri di un territorio inesplorato ed insieme dimenticato, estremo, che si fa ricettacolo di un’umanità varia e variamente disperata, tutta destini mancati o sbagliati, tra ricordi da cancellare e rimpianti da cullare. Giovane bacchetta di già autorevole piglio, Valerio Galli conduceva l’Orchestra de “I Pomeriggi Musicali” con magnifica duttilità ed asciuttezza, prendendosi il rischio di esplorare, a cuore aperto, i nodi e le spine della partitura, pescandone dal fondo torbido echi e presagi, sottolineandone con braccio sicuro quella “modernità” che tanto dice di quel mondo lontano, remoto, giovane quanto atavico. In buca, tutto già appariva scritto, tutto deciso, scandito da un fraseggiare inquieto, cesellato, di pregevole lucidità. L’alzarsi della marea pucciniana suonava grandioso, prevaricante solo là dove è la sorte a sommergere le vite. Sulla stessa lunghezza d’onda la regia di Andrea Cigni. Nessuna concessione al bozzettismo di un West tutto canyon e pistoleri; al suo posto, una rosa di riflettori puntata sulla notte nera, resa in tutto il suo oscuro enigma. Viscere della terra. Viscere dell’anima. A dominare la scena, in pendenza, una pedana girevole, ora montagna dal cui ventre nudo escono i minatori, a riveder le stelle, ora squallida capanna di Minnie, ora Polka, taverna del dopolavoro e soprattutto bislacca stella polare per esistenze alla deriva, schiene spezzate dalla fatica, gole arse da silenzi e nostalgia. È un mondo maschile, quello disegnato da Puccini; variopinto e stridente, nobile e corrotto, sedotto dalla febbre dell’oro; un mondo di lupi solitari a caccia di riscatti facili per avventurieri senza scrupoli, ma anche di solidarietà, di quella fratellanza che solo tra i vinti si stabilisce. Qui i sogni si giocano in una mano di carte truccate, o si annegano nel whisky. Solo Minnie, amica, maestra, sogno proibito a portata di mano, è luce. È lei il fragile, delicato equilibrio per cuori rabbiosi, istinti repressi, grida inascoltate. Ne sono attratti i ragazzi della miniera, ne è perduto Rance, spavaldo sceriffo e biscazziere dal cuore avvelenato che al suo sguardo sente le gambe tremargli. Ma lei, la semplice ragazza che ancora deve donare il suo primo bacio, attende l’amore senza compromessi. Quello per cui vivere e per cui morire. Lo troverà in un ricercato, soffrirà per le sue menzogne ma crederà alla bontà del suo cuore. Per lui sfiderà le logiche primitive di maschi astiosi, barerà, alternerà pistole a sorrisi fino all’appello finale con cui, con uno straziante discorso, convincerà tutti a liberare il suo Dick e a ridarlo a lei. Un lieto fine, forse, per i due innamorati; per il campo, il sipario che cala. La Polka d’ora in poi sarà vuota di un sorriso di donna. Al pensiero, l’amarezza sommerge la favola. Rebeka Lokar, forme giunoniche in abiti maschili, è una Minnie toccante e mai civettuola, ben addentrata nello sfaccettato personaggio di ragazza innocente e combattiva, semplice e disperata. La voce ballonzola e l’intonazione non è mai perfettamente definita, ma la carica drammatica del suo canto vincono ogni ostacolo. Stentoreo e fin troppo muscolare, ma espressivo e complessivamente efficace, è il Dick Johnson di Angelo Villari, così come credibile è il Rance spaccone e disilluso di Sergio Vitale. Elegante e perfettamente calata nella parte la nutrita rosa di personaggi minori, capitanata dal morbido, duttile Nick di Didier Pieri, e completata dal Sonora di Valdis Jansons, dall’elegante Ashby di Andrea Concetti e dal Jack Wallace affidato a Christian Federici. Appalusi meritatissimi per il coro maschile di OperaLombardia, istruito da Diego Maccagnola.
Elide Bergamaschi