La Toscanini ricorda il castiglionese Matteo Beschi

MANTOVA Un cambio di registro inatteso, e la serata di sabato 2 dicembre, all’Auditorium Paganini di Parma, virava dolcemente verso altre atmosfere. Eccoci, di colpo, faccia a faccia con la commozione di una pagina intrisa di nostalgia e di rimpianto, di sogno, di vuoto. “The nearness of you”, standard che la voce di Ella Fitzgerald ha reso immortale, trovava qui il canto plastico, indugiante, della tromba di Andrea Lucchi, l’oro di una strumentalità levigata che si scioglieva in velluto, ad avvolgere il numeroso pubblico in sala. Lo avevamo appena applaudito in un esaltante Concerto di Haydn in cui l’interprete si era letteralmente divertito, con l’eleganza che ne costituisce la cifra, a lanciare e a rilanciare, in un gioco complice e audace, i dadi di un dialogo serrato con l’Orchestra Toscanini diretta da Alessandro Bonato. Ma di fronte all’intensità che, sui vapori di un arrangiamento orchestrale di impalpabile suggestione, la sua tromba srotolava, il virtuoso cedeva il posto al poeta. E lo spirito di Matteo Beschi, aleggiante su quel palco che, dallo scorso febbraio, non lo ha più visto tornare, dopo vent’anni trascorsi come prima tromba tra le fila della formazione, si faceva presenza quasi fisica. I suoi colleghi e amici di tanti concerti e di chissà quante prove – perché nella vita di un musicista, se i riflettori sono la vetrina, il retropalco è l’esaltante, avventuroso cantiere in cui si allestisce la fabbrica dell’incanto – hanno voluto ad ogni costo ricordarlo così. Con la musica, in quella che è stata a lungo la sua casa. Ci era arrivato presto, dopo i primi passi mossi nella sua Castiglione delle Stiviere e il diploma al Conservatorio di Mantova, nella classe di Neldo Lodi. Un talento fiammante, la musica come libertà e condivisione. In piena pandemia, in una delle sue ultime apparizioni, si era cimentato con il solito spericolato, generoso coraggio, con il pianoforte statuario di Vadym Kholodenko nel Concerto per pianoforte e tromba di Shostakovich. Venti minuti scarsi di pura bellezza, un’intesa quasi elettrica, ad altissima gradazione emotiva, con i due solisti a divertirsi, spericolati, attraverso le insidie di una scrittura spavalda e graffiante. Sabato, a ricordarlo, attraverso la lezione di classe di una delle trombe più autorevoli della scena contemporanea, era la struggente bellezza di una melodia anni Quaranta, incastonata tra pagine ben più monumentali, a dirci che la sua vicinanza accompagna chi l’ha incontrato in un eterno presente. Lui, ne siamo certi, avrebbe apprezzato. Così come avrebbe apprezzato la giovinezza già temperata, saggia, luminosa, di Alessandro Bonati, direttore di gesto e di sostanza, esaltante ma mai esaltato, artigiano di un fare musica che costruisce ogni scelta sul corpo della compagine a disposizione. La serata, un dialogo tra Haydn e Brahms, tra un nord gotico e luterano e un sud cattolico e arioso, girava attorno al concetto di variazione. Con le Variazioni di Brahms su tema di Haydn op. 56a infatti prendeva il largo e sulle note della grandiosa Passacaglia, ultimo movimento della Quarta Sinfonia op.98, il giovane direttore veronese chiudeva il periplo di quello che andava a rivelarsi come un cerchio magico. E se nella lussureggiante biodiversità delle Variazioni l’approccio sobrio di Bonato, ancora prudentemente sulla soglia del visionario così come del tempestoso, da un lato definiva con pregevole nitore le linee di ogni singolo ritratto ma, dall’altro, ne ovattava l’affondo nelle peculiarità identitarie, di fronte al vertiginoso monumento della Quarta, la stessa rigorosa onestà di lettura, partecipata e mai sovreccitata, consentiva di addentrarsi, pagina dopo pagina, nella filigrana polifonica, nei contrappunti che, da sommersi, si facevano sempre più affioranti, nella logica ferrea di un’opera che non smettere di stupirci ma, soprattutto, di interrogarci. Appalusi generosi e meritatissimi.
Elide Bergamaschi