L’Aida salisburghese è un viaggio al termine della notte

foto ruth walz

SALISBURGO Ovunque vento, vento che fa danzare il deserto di pietra in un violento turbine di polvere. Davanti, la sconfinata distesa del mare, tutt’uno con il cielo. Una natura primaria, ruvida al tatto e dolorosa agli occhi, in cui la vita è quotidiano banco di prova, arduo per gli uomini – maschi dall’aria dura e dai tratti mediterranei, graffiati dal sole – impossibile per le donne. Queste ultime, un esercito silenzioso di ombre nere avvolte in hijab, fantasmi tutti occhi e mani che si muovono in un paesaggio lunare, ignorate, dimenticate, perennemente in gruppo eppure sole. La speranza è un’altra vita, di là dal mare, oltre quella distesa palpitante che sa essere culla ma anche tomba. L’Aida che il Festival di Salisburgo ha messo in scena in questo 2022 è un viaggio al termine della notte, una discesa nell’abisso ultimo della partitura verdiana che la regista iraniana Shirin Neshat, in uno scavo che turba e commuove, indigna e incanta, colloca nell’eterno presente dell’uomo. Un dramma lontano dalle piramidi e dai faraonici sfarzi, scevro da ogni concessione a decorativi esotismi; piuttosto, un coltello girato nella piaga che non vogliamo vedere: il mondo degli ultimi, sempre dall’altra parte rispetto ad ogni frontiera. Aida è l’altrove, imprigionato in sguardi incapaci di sciogliersi nel canto delle parole, aggrappati al destino sfuggito dalle mani. Impossibile, su quel barcone che la videoproiezione vede salpare all’inizio del dramma, in un paesaggio in bianco e nero, non scorgere gli Etiopi dell’oggi, quella moltitudine indistinta che la regista decide di chiamare in causa, in apertura di atto, nel buio della sala. Mormorii, sospiri, addii, sogni custoditi tra i denti, mentre la barca va, ondeggia, segue le trame e le bizze delle correnti. Personaggi senza nome in cerca di un approdo, schiene che, denudate, raccontano di preghiere, ultime parole, indirizzi riportati sulla pelle, quasi a fare del corpo l’ultimo lembo di un racconto disperatamente interrotto. E infine, piante di piedi che non si muoveranno più, con un cartellino appeso ad un dito a catalogare un destino a scomparsa, una cometa transitata troppo velocemente tra un porto e un altro. Un’Aida che stana il Verdi più prezioso, nel damasco di una scrittura che davvero, a dispetto delle spesso roboanti letture di casa nostra, è uno scrigno di preziosismi annidati in una trama intima, pudicamente trattenuta sottopelle. In buca, Alain Altinoglu ha nelle dita il cesello per forgiare, sulla sontuosa tela dei Wiener Philarmoniker, una drammaturgia che quasi non avrebbe bisogno delle scene, tanto è tesa, insinuante, capace di abbracciare e di impastare con straordinaria espressività i chiaroscuri emotivi. Il potere e il suo prezzo, l’amore e le sue ombre. E la vita, la morte, la forza del passato, l’onore alla propria memoria. Verdi come non ricordiamo di averlo ascoltato; inesorabilmente proteso in avanti, affondato nel magma di una compagine che è velluto ed oro fuso, macigno e carezza. Lui, il direttore, non perde di vista una linea, asseconda l’intreccio con un gioco di dinamiche e fraseggi di strabiliante bellezza, in una simbiosi assoluta tra buca e scena, con i cantanti quali estensioni ideali dello strumento orchestrale. L’Aida di Elena Stikhina riluce di appassionata purezza e conduce l’ascoltatore nel labirinto del suo cuore, passo dopo passo, attraverso il cammino sacrificale che la porterà alla decisione fatale. L’ultima, estrema accoglienza del suo essere donna. Il sacrificio dell’agnello. A contrappuntarla, il Radames di Piotr Beczala a partire dall’arduo annunciarsi di quel Celeste Aida, risolto nella sublimazione di uno sfumato quasi infinito, ipnotico, verso il regno di un impercettibile pianissimo, dà voce ad un guerriero tormentato, trepidante, spiccatamente introspettivo. Chiude il trittico dei personaggi principali l’Amneris aurea, smagliante nella vocalità quanto nella capacità di scolpire una ad una le tante facce del suo complesso profilo, di Ève-Maud Hubeaux . Una sovrana ugualmente credibile nella perfidia e nella pietà, nella femminilissima dolcezza e nella crudeltà che la sua maschera di unica donna di potere lascia scorgere, sotto l’impassibilità di atteggiamenti mutuati da una logica maschile. Magistrali, insieme allo strepitoso coro, le prove delle voci italiane nel cast: Roberto Tagliavini, un Re di altissima levatura, così come ottimamente risolto è il messaggero di Riccardo Della Sciucca, e soprattutto l’Amonasro di Luca Salsi, sempre più interprete verdiano di riferimento assoluto grazie ad uno scalpello che indaga come pochi altri la parola scenica verdiana. A completare il cast, la luminosa, orante sacerdotessa di Flore van Meerssche. Quasi inesistenti, eppure (o forse proprio per questo) straordinariamente efficaci le scene, nobilitate da un gioco di luci di avvincente forza espressiva: nell’oscurità del fondale, un cubo bianco scavato al proprio interno: blocchi componibili e scomponibili che all’occorrenza diventano sala del trono, muro del pianto, pertugio da cui guardare, con rimpianto o desiderio, a quello sconfinato blu che unisce e divide. E da ultimo, oscura prigione che mani pietose e indaffarate avevano scavato freneticamente, prigione in cui morire insieme sognando un cielo benigno, al di là dal mare. Si esce turbati da questa Aida dura e necessaria, qui a ricordarci che niente è vero quanto il teatro. Ovazioni a direttore e interpreti da parte di tutto il Festspielhaus.
Elide Bergamaschi