Nelson Goerner illumina il Festival de Musique

MENTON Classe 1969, il passo del fuoriclasse e la solare semplicità di uomo della porta accanto, Nelson Goerner è interprete capace come pochi di rappresentare l’anima di un Festival dalle radici antiche e dal cuore fortemente pulsante. A Menton, lo scorso 10 agosto, in una serata di punta della programmazione del cartellone numero 75 del Festival de Musique, l’interprete argentino – che tornava per la terza volta sul Parvis della Basilique de St. Michel Archange – ha offerto un saggio del suo pianismo al tempo sontuoso e intimo, da naturale erede di una concezione che porta, per comuni radici sudamericane, all’indimenticato Nelson Freire. Quella stessa spontaneità di eloquio, quella stessa onestà verso la pagina. Al piglio regale, alla lussureggiante tavolozza di colori del pianista morto a Rio de Janeiro lo scorso marzo 2021, Goerner sembra tuttavia preferire una più appartata colloquialità, una visione rasserenata e sempre conciliante che pare attraversare ogni restituzione interpretativa. Nel percorso di ascolto proposto, la Ciaccona in Sol maggiore HWV 435 di Haendel, tratta dalla seconda raccolta di Suites, smerigliata a meraviglia nell’intarsio di svolazzi e di imprevedibili cambi d’umore sul filo teso di frasi sottilmente impazienti, tendeva la mano alla galleria di profili delle schumanniane Davidsbundlertnze op. 6. Da un lato, l’universo barocco di mercuriale, saturnina, guizzante bellezza, il teatro immaginario di apparizioni fulminee, di un’emotività soggettiva e universale, disegnata con adesione mai impettita quanto, piuttosto, affettuosa, come nella variazione in minore, aulica, dolente nella sua vocalità mancata. Dall’altro, la rutilante parata delle Danze, con i suoi diciotto profili – volti, ben più che maschere – nel cui riflesso il multiforme io di Schumann trova rifugio e legittimazione, diventavano, nel filo tracciato da Goerner, la naturale foce di quello stessa esaltata drammaturgia. Qua e là il teatro, la variazione intesa non solo come rielaborazione di uno spunto tematico ma come cambio di angolazione, scorcio alternativo, investigazione inesausta a cogliere, della vita, l’ultimo segreto riposto. E il punto di vista, la lente dell’interprete, preferiva assecondare, anziché l’esasperazione delle singole facce, dei continui scarti, o il gioco dei travestimenti, degli pseudonimi, il teatro che è nei giorni, quello intrinseco alle cose, quasi a ricomporre l’abbacinante affresco attraverso un’intima, cameristica intesa tra le parti. Nei colori, nella conduzione agogica, nel pudore con cui attraversava queste disarmanti confessioni in cui, paradossalmente, proprio il travestimento è cartina tornasole di uno svelarsi, Goerner rivelava la chiave della sua lettura dove, nella tempestosa lega dei visionari spadaccini, sembrava essersi stabilita un’irreale pace. Una tregua, una sospensione delle ostilità, con Florestano, così come del resto Eusebio, non al centro dell’azione, a mangiarsi la scena, ma in prudente, trepidante attesa, sulla soglia. Tutta lisztiana la seconda parte del recital, con l’avvincente periplo che dalla seconda Ballata conduceva allo scintillio della torrenziale sesta Rapsodia Ungherese, toccando i territori scoscesi della Valse oubliée ma, soprattutto, del Sonetto n°104 del Petrarca, tratto dal secondo libro delle Années de Pèlerinage, sintesi, quest’ultimo, in miniatura, di uno sguardo sciolto, sublimato, nobilmente aurorale. Un Liszt aureo, ripulito dagli strepiti, lavorato a mano, con artigianale devozione. Anche la realtà più prossima può nascondere meraviglie.

Elide Bergamaschi