Sokolov straripante ad Aix en Provence

LA ROQUE D’ANTHERON

Fedele a Toscanini e al suo monito “All’aperto solo i pic nic!”, Grigory Sokolov declina puntualmente l’invito ad esibirsi nel suggestivo Auditorium du Parc del Château di Florans. Ma non per questo il Direttore Artistico René Martin rinuncerebbe mai alla sua presenza, che dello straordinario Festival du Piano de La Roque d’Anthéron è pietra angolare. Detto fatto: per Sokolov la musica en plein air si trasferisce in sala da concerto, al Gran Théâtre di Aix en Provence, dove lo scorso 30 luglio il pianista di S. Pietroburgo si è esibito di fronte ad un pubblico numerosissimo. Programma come sempre bistagionale che ad inizi giugno era al Grande di Brescia, che il 19 agosto sarà a Bolzano e che nel frattempo gira per l’Europa con cadenza serrata: Variazioni op.35 dall’Eroica di Beethoven, op.117 di Brahms, Kreisleriana op.16 di Schumann. Per dare la cifra di questo gigante basterebbe l’incipit beethoveniano, il motto che poi si fa in mille rivoli: un brusio sommesso di fiati, in sordina, con qualche ribattuto aleggiante nell’aria lontana. Una scena già tracciata, il sipario già alzato su un’intera orchestra raggrumata in una sola cordiera. Una moltitudine tenuta insieme un legato assoluto, che affiora piano dal fondale e si affaccia alla luce, nel gioco di linee che echeggia a strumenti diversi in un crescendo quasi plastico. Il punteggiare dei legni, lo smalto degli ottoni, pedine di un contrappunto ferreo. E basterebbe il passo scelto da Sokolov: non quello spavaldo di una gioiosa leggerezza – categoria che il Maestro non possiede e probabilmente non considera – ma quello compassato, a misura di uomini non al galoppo ma in carrozza. Aurorale senza mai toccare quella luce che già fa intravedere all’orizzonte il cielo dell’Ode alla gioia. È una scena di un’umanità universale, ecumenica, di uomini di buona volontà in cui tutto è regolato dalle leggi di un ordine superiore. Un Beethoven che per Sokolov è in realtà, nello sviluppo delle variazioni via via più ardite, pompose, sinfoniche, l’estrema conseguenza della lectio bachiana, il tripudio di una polifonia che chiama a sé un’intera compagine ottocentesca, senza mai cedere all’abbrivo di una maggiore esuberanza. Il trionfale mi bemolle che chiude il cerchio di tanta aurea bellezza era anche il territorio da cui prendeva l’avvio il trittico delle miniature op.117 di Brahms. Qui si innestava infatti la gioia crepuscolare di queste pagine, la luce tremolante di quell’autunno inoltrato che regala qua e là vampate di ebbrezza. Un congedo, un arrivederci sereno, senza rimpianti, già con un piede nel regno delle ombre. Una visione che sembrava raccogliere il testamento di Lupu, eterno custode di questi mondi di frontiera, ma priva dei suoi lancinanti tormenti. La voce delle ultime parole, il bilancio di una vita che ancora pulsa, e che non finirà con l’ultimo respiro. Il ritorno al tema, nel terzo Intermezzo, vedeva la mano sinistra disegnare suoni tombali, profondi, sordi richiami all’implacabile dissolvenza del tutto, accettata come un abbraccio e un ritorno a ciò che si è sempre stati. Le otto fantasie che Schumann cucite addosso alla penna di Hoffmann, allo stesso modo, si annunciavano ancora intinte nel pennino brahmsiano. Introverse, arrese nel percorrere il loro polo più spericolato, ripiegate sullo sguardo di Eusebio, toccante rovescio di una medaglia che, in gran parte delle esecuzioni, sembra invece considerare il solo confratello Florestano. Qui invece il racconto si faceva segreto, straordinariamente famigliare, svaporato dai fumi di ogni artificio. Fantasie srotolate con passo maturo, di una maturità che predilige l’agilità del pensiero, e dei ricordi, a quella delle gambe, offerte con il pudore di una confidenza. Quadri che, come lo erano gli Intermezzi di Brahms, già preludevano, pregustandolo, al dopo, all’oltre, a quell’ordine che tutto tiene e i cui contrasti trovano, anche nella dialettica più accesa e drammatica, necessaria conciliazione. Secondo il verbo di Sokolov, Schumann – e la sua ispirazione letteraria – rivelano nelle radici più intime lo spirito torreggiante del Kantor. Cosa rimane, dunque, di queste meteore avvincenti e folli, selvagge e spiritate? L’algebrica perfezione delle loro geometrie, del loro microcosmo che invita ad alzare gli occhi al cielo. Di fronte ad una simile, lapidaria coerenza, anche una visione lontana dai propri orizzonti finisce per piegare le attese al suo incrollabile teorema. Ovazioni, come da copione. Pubblico in delirio, interprete ossequiosamente, rispettosamente impassibile nella maschera facciale. Ma come sempre generosissimo nel darsi ancora, e ancora. Una pioggia di bis, tutti pescati da autori russi, di quella Russia antica che era madre e nutrimento di popoli. Rachmaninov (raramente ascoltato da lui, che ne fa una postmoderna toccata bachiana), Skrjabin, fino al Bach – Siloti che chiudeva il viaggio, con il suo straziante Vocalise senza parole. Un gigante. 

Elide Bergamaschi