L’erba dalla parte delle radici

Colpo d'occhio

Mantova A prescindere dal colore della maglietta che indossate per esprimere le vostre posizioni politiche, o se in materia di attracchi vi sentite più vicini al Quirinale o al Viminale, penso che nessuno vorrà sottovalutare il problema legato all’arrivo dei migranti. Se non per una questione umanitaria, per l’importanza che il tema ha assunto. Percepito come un’emergenza, proprio mentre gli sbarchi diminuiscono.

Un problema talmente grande e complesso che, solo a pensarci, mi sento piccolo. Lascio quindi ad altri proclami e formule magiche. Più semplicemente, vorrei provare a ragionarci. Porre qualche domanda. Senza pregiudizi, all’insegna del “conoscere per deliberare”.

Cominciamo. Proviamo a vedere l’erba dalla parte delle radici. Quando sento che in Europa dovremmo limitare gli arrivi da Africa e Asia, ci siamo chiesti come mai queste popolazioni si ostinano a voler raggiungere le nostre coste? Non dico i rifugiati, ovvero coloro che provengono da Paesi dilaniati dalla guerra, il cui status, una volta riconosciuto, dà diritto all’asilo. Parlo del resto, della maggioranza dei migranti. Credete che la condizione fra costoro e quella dei rifugiati sia molto diversa? Se chi abita in Stati dove ogni parametro – salute, diritti, educazione, economia, futuro – confrontato ai nostri registra solo baratri, l’idea che essi faranno di tutto pur di andarsene è così difficile da accettare? A chi è nato in Eritrea o in Bangladesh – l’elenco dei Paesi sarebbe lungo – va negata l’aspirazione verso un’esistenza migliore? Se vivessimo in Nigeria, se Boko Haram controllasse la nostra città, non cercheremmo anche noi di fuggire?

Mi sembrano quesiti che appartengono alla lunga storia per le libertà. Da che mondo è mondo, le popolazioni più povere si spostano per cercare realtà migliori. E’ una delle molle che muove la Storia. Immagino che nessuno lasci volentieri il posto dov’è nato. Chi lo fa è perché le condizioni in cui vive non gli lasciano scelta. Sono fenomeni che non si correggono a colpi di divieti. Né seminando ostacoli. Si esauriranno quando il tenore di vita dei loro Paesi muterà, crescendo. L’emigrazione italiana, ad esempio, è diminuita nella seconda metà degli anni Cinquanta. Non perché la Svizzera, la Germania o l’Australia avessero chiuso le frontiere. E’ calata appena anche qua si è diffuso un certo benessere.

Stando così i fatti, affrontare il problema quando le navi sono prossime ai porti – e alle telecamere – è un atteggiamento saggio o tardivo? Ignorare le dimensioni e le cause del fenomeno, i numeri che l’economia e la demografia offrono, è un atteggiamento saggio o saccente? Alimentare polemiche, muoversi pensando solo alle elezioni, dividere il mondo in buoni e cattivi, è un atteggiamento saggio o strumentale?

Chiudo. Se le persone che cercano di sbarcare arrivano a preferire un carcere italiano ai centri libici da dove provengono, vuol dire che a Tripoli l’inferno esiste davvero. Senza contare le tappe precedenti. La portata è epocale, il problema enorme. Non riduciamolo a schermaglie fra partiti. Studiamolo. Iniziamo a governarlo. Servirebbe a questo la politica, ad affrontare i problemi. Dimenticando i sondaggi, formando l’opinione pubblica, non solo inseguendola.

Piantare scogli pensando di arginare il mare è una battaglia persa. Soprattutto, inutile. Mogol l’aveva capito più di quarant’anni fa.