Franco Panizza, un uomo vero

Panizza e Marocchi in tribuna al MIgliaretto

Se n’è andato un Grande. Un Amico. Un Grande Amico. Amico di tutti. L’Amico che tutti vorrebbero avere. Franco Panizza ci ha lasciati, aggredito da un male che lo ha colpito col più vigliacco e perfido dei falli, quello da tergo, al quale è impossibile opporsi. Se ne va un altro pezzo di storia del Mantova, una storia scritta da Panizza con i fatti. Con temperamento e personalità straripanti, doti che se miscelate col coraggio generano il mito. Sì, Franco Panizza è stato un vero mito per tutti coloro che hanno avuto il privilegio di conoscerlo e frequentarlo. Non si pensi ad un episodio in particolare. Quel gol segnato al Milan, pur storico, c’entra, sì, ma fino ad un certo punto. Mitico, Franco, lo era e lo sarà in eterno per quella straordinaria simpatia che emanava da ogni poro. Era sempre il più richiesto della compagnia. “C’è Panizza? Allora vengo!”. Le cene con gli amici diventavano speciali quando c’era lui. Quelle battute e aforismi coniati al momento, con prontezza disarmante e talento irraggiungibile, avevano portato tutti ad imitare i suoi modi, divenuti nel tempo proverbiali. Geniale e originalissimo quel suo vezzo di “italianizzare” frasi in dialetto mantovano. “’Na forsìna pr’ün” (una forchetta a testa) era riconvertita in un improbabile “una forzìna pruni”, rivolta spesso anche a sconosciuti e quindi ignari interlocutori, che sarebbe poi diventata una sorta di parola d’ordine per tutti gli amici, in qualsiasi situazione, dalla pizza dopo l’allenamento alla serata a teatro, dalla vacanza alla partita a carte. Appunto, la partita a carte. Quotidiano appuntamento con i compaesani di Marmirolo, o nel fine settimana in montagna con gli amici storici della Ducale. Tutta gente laureata in provocazione, col massimo dei voti. In caso di sconfitta (che fosse o non fosse dipesa da lui aveva un’importanza marginale), il mite “Jeckill” si trasformava in un incontrollabile “mr. Hyde” che, per gli sfottò, non esitava a prendere le carte per farle volare, sparpagliandole, nel giardino del vicino. Tutta scena. Un copione ben recitato, in grado di scatenare irrefrenabili risate da parte di tutti, giocatori e mogli presenti allo “spettacolo”, che altro non aspettavano. Un autentico, adorabile fuoriclasse. Dispensatore di buon umore a getto continuo, garbatamente irriverente, serio e dissacratore al tempo stesso su qualsiasi argomento, non solo il calcio, di cui era comunque profondo conoscitore. Eppoi quel valore aggiunto, l’umiltà, che lo ha sempre contraddistinto, in campo e fuori. Avrebbe potuto tirarsela per quel gol che fece immusonire Rivera e trasformò la vita di un anonimo fortunatissimo tredicista che se fosse vissuto oggi si sarebbe tatuato il volto di Panizza su un braccio. Quel gol al Milan lo ha reso indubbiamente famoso, ma quello rimane pur sempre un episodio regalatogli dal destino. Lo spessore del Panizza calciatore e uomo emerge in tutta la sua grandezza il 17 giugno del ‘73, Mantova–Brescia, ultima giornata del campionato di serie B. I biancorossi, che devono assolutamente vincere, sono sotto di un gol. Minuto 55, rigore per il Mantova. Ai vari Leoncini, Roveta, Cristin, torna fin troppo comodo il pur disdicevole “coraggio, scappiamo!”, che non fa certo onore al loro curriculum. E allora, la responsabilità di calciare quel rigore da infarto se la carica tutta sulle spalle lui, l’allora 25enne Franco Panizza da Marmirolo. La rete della porta sotto la curva Te, dove non si sente volare una mosca, si gonfia, così come il cuore dei tifosi, che si riapre alla speranza. Il petto di Panizza straripa invece di orgoglio. Anche perché il nostro ha dovuto fare i conti, oltre che col portiere bresciano Galli, con quella sorta di spada di Damocle da sempre pendente sulla sua testa, ben rappresentata dalla locuzione “nemo propheta in patria”, che qualche tifoso diversamente intelligente gli ha spesso ricordato dagli spalti del “Martelli”. Quel gol, purtroppo, non servirà ad evitare una amarissima retrocessione (la seconda consecutiva), ma è quel gol e non quello al Milan che rende immortale Panizza. Un gol simbolo di un coraggio e di un attaccamento alla maglia biancorossa (una sorta di sua seconda pelle) che pochi, nella storia del Mantova, possono vantare.

Franco Panizza sarà poi costretto a cercare fortuna (o, per meglio dire, ad essere profeta) altrove. Ternana (promozione in serie A), Catania, Taranto. Nella città pugliese entrerà nel cuore dei tifosi rossoblù con la forza di un ciclone. Farà parte di una formazione leggendaria, divenuta una sorta di filastrocca scolpita nella memoria di tutti i tarantini che a quel tempo affollavano lo stadio “Salinella”, poi intitolato al povero Iacovone: “Petrovic, Giovannone, Cimenti; PANIZZA, Dradi, Nardello; Gori, Fanti, Iacovone, Selvaggi, Caputi”. Emozioni allo stato puro. E ieri, purtroppo, il buon Franco ci ha trasmesso l’ultima, quella che nessuno avrebbe mai voluto provare. Il nostro “eroe” aveva già fatto una capatina in Paradiso, quel 5 dicembre 1971, spiccando il volo da San Siro. Una toccata e fuga, così, giusto il tempo per verificare di persona che in quel posto si stesse veramente bene. Ci piace pensare che chi ha deciso che il cielo sia ora la sua nuova casa, lo abbia premiato per tutto quello che ha lasciato in noi quaggiù. Un maestro di calcio ma soprattutto, per la sua grande dignità, sensibilità e umanità, un grande maestro di vita. Un grande.

Claudio Mazzocchi