ROMA – Ma cosa sta succedendo nel settore dei contributi pubblici all’editoria? Bella domanda. A cui ben pochi, forse persino al Dipartimento di Palazzo Chigi che si occupa di questo variegato mondo, sanno rispondere. In pochi anni il nostro Paese è passato dal furore paranoico di cancellare ogni tipo di sostegno ai piccoli e medio-grandi giornali no profit (cooperative di giornalisti ed enti morali) al furore opposto di erogare ingenti risorse pubbliche, senza alcun controllo sul loro utilizzo, a quelli che un tempo la politica mainstream chiamava enfaticamente “giornaloni”, ovvero quotidiani e periodici della famiglia Agnelli-Elkann, della Rcs e di Urbano Cairo, della famiglia Caltagirone o di Confindustria, solo per citare qualche nome.
E, si badi, siamo a una deriva che, nata come emergenza eccezionale (tanto che le misure in questione vanno sotto il nome di “Fondo straordinario per l’editoria”) e con i governi di Lega e 5 Stelle, è continuata poi sotto il governo tecnico di Mario Draghi (sostenuto da tutti i partiti ad eccezione di Fratelli d’Italia), e si sta addirittura stabilizzando e aumentando oltre misura per diventare “strutturale” con l’attuale Governo di Giorgia Meloni.
I contributi diretti al pluralismo nell’editoria
Per capire di cosa parliamo occorre fare qualche premessa. I contributi pubblici all’editoria esistono da decenni e negli anni sono stati regolamentati in maniera sempre più severa e stringente per garantire la massima trasparenza. Si chiamano “contributi diretti” e attingono da uno speciale “Fondo per il pluralismo”. I destinatari, a parte i giornali per le minoranze linguistiche in Italia o per gli italiani all’estero, sono giornali e siti internet editi da cooperative di giornalisti o enti morali. Si tratta di editori che per legge devono essere “puri” e senza “scopo di lucro”, vale a dire che è vietato occuparsi di altro e dividere eventuali utili di bilancio, e sono soggetti a controlli giustamente molto severi. In stragrande maggioranza sono quotidiani o settimanali locali, periodici di nicchia, settimanali diocesani, cattolici, come Famiglia Cristiana, ma anche giornali nazionali, come Il Manifesto, Il Foglio, Libero, Avvenire.
La ragione di questi contributi è semplice: garantire il pluralismo dell’informazione nel nostro Paese, perché senza questi soldi in Italia rimarrebbero in vita solo i giornali dei cinque o sei grandi gruppi editoriali che fanno capo ai principali potentati industriali. E per questo motivo l’Unione europea ha stabilito che questi soldi non sono configurabili come aiuti di Stato e non sono perciò soggetti ad autorizzazioni e limiti da parte della Commissione europea.
A questo mondo, composto da qualche centinaio di piccoli editori, va ogni anno una cifra complessiva tra gli 80 e i 90 milioni di euro, amministrata dal Dipartimento per l’editoria presso la Presidenza del Consiglio, al cui vertice è oggi il sottosegretario Alberto Barachini, parlamentare di Forza Italia ed ex giornalista di Mediaset. C’è poi un altra voce del Fondo che è diretta alle radio e alle tv ed è gestita dal ministero delle Imprese, ma questo è un discorso a parte.
La mannaia di Vito Crimi
Ebbene, nel 2019 l’allora sottosegretario Vito Crimi decise che bisognava togliere l’ossigeno al pluralismo dell’informazione e con un comma della Legge di Stabilità di quell’anno, il numero 810, stabilì che i contributi sarebbero stati azzerati entro quattro anni. Tutti i sottosegretari all’Editoria che si sono succeduti da allora in poi hanno disconosciuto quella norma, sostenendo che andrebbe cancellata. Peccato, però, che non abbiano mai trovato il tempo per farlo. Ne hanno invece rinviato l’attuazione di anno in anno, in maniera che ogni anno i giornali delle cooperative di giornalisti non sanno di anno in anno se potranno rimanere in vita, e dipendono dall’umore del Governo di turno. L’ultimo rinvio posticipa la tagliola al 2025.
Poi, però, nel mondo sono successe tante cose. È arrivato il Covid, è scoppiata la guerra in Ucraina, ci sono state la crisi energetica e quella legata ai rincari delle materie prime, infine la bolla dell’inflazione, ora il Medio Oriente in fiamme. Gli editori tutti, non solo alcuni, che già erano traballanti per la rivoluzione digitale e dei social media, e la conseguente irreversibile crisi della carta stampata e delle edicole, si sono trovati in gravi difficoltà.
Contributi: si allarga la platea
E a questo punto il Parlamento italiano, meritoriamente, ha deciso che bisognava sostenerli, perché senza l’informazione in un Paese non c’è vera democrazia. Ha creato così il “Fondo straordinario per l’editoria”. Si chiama straordinario per affrontare crisi contingenti. Questo sì è un aiuto di Stato, e in quanto tale ha dovuto avere il via libera dell’Unione europea. Nel fondo sono stati messi 90 milioni di euro per il 2021 e ben 140 milioni di euro per il 2022. Servono a finanziare, sotto forma di credito di imposta, gli editori di giornali rimborsando loro ben il 30% dei costi sostenuti per la carta e per la distribuzione, e qualcosa in meno per le spese in innovazione digitale.
Ma attenzione: questi soldi non sono per tutti. Vanno solo ai giornali che non godono, perché non ne hanno i requisiti, dei contributi diretti del Fondo per il pluralismo. Vale a dire che tutti i piccoli editori cooperativi e no profit, che sono la spina dorsale dell’informazione locale in Italia e del pluralismo, sono stati esclusi da questi aiuti. Ora, fatta eccezione per la cosiddetta “clausola di salvaguardia” per fronteggiare la crisi dovuta al Covid, clausola che ha fatto sì che per ogni cooperativa editoriale le risorse rimanessero almeno uguali a quelle percepite nel 2019, è come se per gli editori no profit non ci fosse stata nessuna emergenza legata alla crisi internazionale dovuta alla guerra, nessun rincaro delle materie prime. Come se vivessero in un mondo a parte. Questi editori hanno dovuto fronteggiare le batoste della crisi con le risorse che già avevano prima e con le quali, a stento e con grandi sacrifici, riuscivano a mantenersi in vita.
Ma i piccoli editori sono esclusi dagli aiuti
Il sottosegretario Barachini ha proclamato pubblicamente che il Fondo straordinario sarà prorogato anche negli anni successivi e dotato di maggiori risorse, con il plauso esultante dei cosiddetti “giornaloni”. E sarà prorogato anche il sistema con cui questo Fondo straordinario viene distribuito ai grandi giornali: cioè non con criteri certi e prefissati dal Parlamento, ma con provvedimenti spot decisi di volta in volta dal Governo, a propria discrezione.
L’esempio più eclatante è di poche settimane fa. Si è detto che dal credito di imposta per i costi della carta e della distribuzione sono stati esclusi i giornali cooperativi e no profit che già incassano il contributo diretto per l’editoria. Ma il Fondo straordinario prevedeva anche altri aiuti: uno in particolare era un contributo premiale di 5 centesimi a copia cartacea venduta. Misura che è stata aumentata per il 2022 a 10 centesimi a copia. Il decreto di attuazione nulla diceva di eventuali divieti per categorie di editori, e nel silenzio della norma si riteneva che questo premio valesse anche per i giornali no profit. Ma il fondo straordinario non è illimitato: ha un plafond oltre il quale non si può andare, e se gli aventi diritto superano questo tetto, i contributi vengono distribuiti in maniera proporzionale. C’era insomma il rischio che i grandi giornali dovessero dividere la torta con i piccoli giornali locali. Non sia mai. È quindi intervenuto con solerzia il sottosegretario Barachini. E con un nuovo Dpcm, a fine estate, ecco che spunta la norma “ammazza-poveri”: dai 10 centesimi a copia vengono esclusi gli editori cooperativi e no profit.
Il risultato finale di questa storia qual è? Che oggi il Fondo per il pluralismo ammonta a complessivi 80-90 milioni di euro, esattamente come nel 2018 o nel 2019, prima che il mondo e l’economia internazionale entrassero in una drammatica crisi congiunturale. E questo Fondo oggi è persino a rischio, minacciato dalla diminuzione del canone Rai, che lo finanzia in parte, e dalla conseguente alzata di scudi dei vertici della tv di Stato che chiedono di lasciare questi soldi nelle loro casse.
Invece tutti gli altri giornali, quelli editi da società per azioni e dalle grandi famiglie imprenditoriali del Paese, si spartiscono la bellezza di 140 milioni, senza alcun controllo sull’uso che ne faranno e senza alcun divieto di portarseli a casa sotto forma di utili di bilancio e conseguenti dividendi. Risorse che l’anno prossimo saranno anche di più. Senza calcolare poi gli altri aiuti per i prepensionamenti e gli ammortizzatori sociali che i grandi editori attingono dal Fondo per il pluralismo.
Si dirà: e vabbè, anche i grandi editori subiscono gli effetti della crisi economica e hanno bisogno del sostegno pubblico per sopravvivere. Vero. Giusto. Ma perché soltanto loro e non anche i piccoli editori no profit: cooperative ed enti morali? Mistero.
Il sostegno del Governo aiuta anche il “Fatto Quotidiano” e il “Sole 24 Ore”
E poi, va bene aiutare tutta la filiera dell’editoria, ma almeno che venisse riconosciuto. E invece no. Le norme prevedono che i beneficiari dei contributi diretti scrivano ogni santo giorno sul proprio giornale e sul proprio sito internet quanti soldi ricevono dallo Stato. È la trasparenza e va bene così. Gli editori che incassano milioni dal Fondo straordinario, invece, possono tacerlo al pubblico e scriverlo solo nelle pieghe dei propri bilanci. O addirittura negarlo, come “Il Fatto Quotidiano”, che in prima pagina, sotto la testata, ogni giorno reca l’orgogliosa dicitura: “Non riceve alcun finanziamento pubblico”. Ma non è cosi. Nel 2020 la “Seif”, “Società Editoriale Il Fatto”, ha incassato dallo Stato contributi pubblici a fondo perduto per complessivi 196mila euro, di cui 124mila per i costi della carta. E l’anno successivo ha portato a casa dallo Stato 370mila euro, questa volta come contributo per i costi di distribuzione. In due anni fanno 566mila euro.
Tutto lecito, per carità, ma a maggior ragione: perché negarlo?
Prendiamo poi il prestigioso quotidiano economico “Sole 24 Ore”. La società editrice “Gruppo 24 Ore” ha festeggiato nel 2022 il primo bilancio in utile dopo 14 anni di fila di perdite. Si pensi che soltanto l’anno precedente, il 2021, aveva chiuso il bilancio con un rosso di 21 milioni di euro. Nel 2022, invece, finalmente la tendenza si inverte e il bilancio chiude con un risicato ma provvidenziale utile di mezzo milione di euro. Commenti entusiasti (“il merito è della digitalizzazione”, scrivono) e un balzo delle azioni in Borsa, dove il valore fa segnare di colpo un +13%.
Però, spulciando gli elenchi della Presidenza del Consiglio, si scopre che il “Gruppo 24 Ore” nel 2020 ha incassato 375mila euro a fondo perduto per i costi della carta. Nel 2021 il contributo pubblico balza a 2 milioni e 400 mila euro (275mila euro per la carta e oltre 2 milioni per i costi di distribuzione). E nell’anno del ritorno agli utili, il 2022? All’editore del “Sole 24 Ore” sono finiti 821mila euro di contributi per la carta (per la distribuzione i rimborsi relativi al 2021 non sono ancora stati allocati dal Governo).
Va bene: chi mai potrebbe non essere felice se i conti delle aziende italiane vanno bene? Si tratta di aziende editrici che forniscono un importante contributo all’informazione nel nostro Paese e danno lavoro a tanti giornalisti e poligrafici, oltre a tante persone dell’indotto. Quindi, per carità: benvenuti i contributi pubblici. Ci si domanda solo perché questo non valga anche per le centinaia di piccoli editori no profit che pure contribuiscono a mantenere in vita il pluralismo dell’informazione e, molto spesso, l’informazione locale e di prossimità in tanti territori sempre più abbandonati del nostro Paese. A loro l’accesso a queste risorse è stato precluso.
Milioni di euro per Urbano Cairo e la famiglia Agnelli-Elkann
Sarebbe sbagliato pensare, poi, che l’entità dei contributi del Fondo straordinario diretti ai grandi giornali siano solo nell’ordine di grandezza che abbiamo visto. Più il giornale è grande, più contributi riceve. Vediamo per esempio i due maggiori quotidiani italiani.
A “Rcs – Corriere della Sera”, controllata da Urbano Cairo tramite la “Cairo Communication” (che a sua volte edita altri periodici e per questi prende altri contributi), il Fondo straordinario per l’editoria ha regalato 2 milioni e mezzo di euro nel 2020 (contributo sulla carta), 9 milioni nel 2021 (1,7 per la carta e 7,3 per la distribuzione) e quasi 5,2 milioni nel 2022 (per la sola carta). Un totale pari a 16 milioni e 700mila euro. E Rcs è un gruppo florido già di suo. Ha chiuso il bilancio 2021 con un utile di 72,4 milioni e il bilancio del 2022 con un utile di 50 milioni. Interessante notare che questi utili sono stati ripartiti come dividendi tra gli azionisti, che nel 2022 si sono portati a casa 0,06 euro per ogni azione posseduta.
Altrettanto importanti sono gli aiuti all’altro più grande editore italiano, ovvero il gruppo “Gedi”. Il gruppo, suddiviso in varie branche e società, è sotto il totale controllo della Exor, la holding della famiglia Agnelli-Elkann (peraltro nemmeno italiana, visto che ha sede in Olanda). Ebbene“Gedi News Network Spa” e “Gedi Gruppo Editoriale” hanno ottenuto dal Fondo straordinario per l’editoria, complessivamente nel 2021 e nel 2022, 16,4 milioni di euro.
Si dirà che è un bene che i soldi pubblici consentano la sopravvivenza di un’azienda, ancor più se si tratta di un’azienda fondamentale per il pluralismo dell’informazione e, quindi, per la democrazia. Certo. Come non essere d’accordo? Ma almeno sia reso noto.
La protesta delle associazioni di editori no profit
Non sorprende, dunque, che i malumori nelle associazioni di categoria che rappresentano le aziende del settore siano tanti, specialmente dopo il discusso Dpcm che a settembre scorso ha scippato agli editori no profit anche i pochi spiccioli (se paragonati alle cifre di cui sopra), dei 10 centesimi a copia venduta.
«Il fatto che il Governo, con il Fondo straordinario, stanzi da alcuni anni, risorse importanti a favore dell’editoria – dice Giovanna Barni, presidente nazionale di CulTurMedia/Legacoop – dimostra il momento molto critico che il settore sta attraversando, in particolare per i giornali cooperativi e no profit. Colpisce che mentre si erogano risorse sempre più ingenti a favore dei giornali editi da grandi editori e da società quotate in Borsa, che distribuiscono utili agli azionisti e quindi anche parte dei contributi indiretti percepiti, si continuano ad attaccare e a penalizzare le cooperative di giornalisti e i giornali no profit. Questo, nonostante, dati alla mano, il contributo stanziato a favore della categoria più debole, in quanto per definizione composta da “editori puri” come prevede la legge per il pluralismo dell’informazione, sia ormai residuale rispetto all’attuale sostegno pubblico al settore. Alla crisi strutturale dei giornali si sono aggiunti, negli ultimi anni, prima la pandemia da Covid, poi la crisi internazionale con la guerra in Ucraina e un aumento più che raddoppiato del costo della carta da giornali. Ora – prosegue Barni – se il Governo riconosce che la crisi c’è, questa vale per tutti, specie per l’editoria cooperativa, minacciata da tagli e tentativi di cancellazione. Fatta eccezione per la “clausola di salvaguardia”, conseguente alla crisi provocata dal Covid, gli interventi a sostegno delle cooperative editoriali al momento sono fermi al palo e non ancora stata cancellata la minaccia che prevede la progressiva riduzione dei contributi diretti fino al loro progressivo azzeramento. Da un anno si è aperta un’interlocuzione con il nuovo sottosegretario all’Editoria Alberto Barachini ma di risultati concreti ancora non se ne vedono. Occorre salvaguardare i principi costituzionali legati alla libertà e al pluralismo dell’infornazione e non è accettabile che a fronte di una crisi che investe tutto il comparto si discrimini una parte, confondendo i piani tra contributi diretti all’editoria, che sono le “regole di ingaggio” per garantire il pluralismo dell’informazione, con quelli indiretti, erogati, discrezionalmente, solo a favore dei grandi giornali», conclude la presidente di CulTurMedia.
Eugenio Fusignani, presidente di “Culturalia”, il settore di Agci che si occupa di editoria, e della confederazione tematica delle tre grandi centrali di cooperative italiane Aci, “Alleanza delle Cooperative Italiane”, la spiega così: «Le preoccupazioni crescono a causa dell’atteggiamento del Sottosegretario verso l’editoria cooperativa e non profit in Italia. Inizialmente c’erano rassicurazioni sul suo impegno a preservare la libertà e l’autonomia degli editori puri come le cooperative giornalistiche. Tuttavia, negli ultimi mesi, tutte le misure sono state rivolte ad incrementare le risorse destinate ai grandi gruppi editoriali, limitando al massimo, ed addirittura escludendo da diversi tipi di intervento, le cooperative e le imprese non profit». E c’è un novità degli ultimi giorni, aggiunge Fusignani: «Nella finanziaria il Governo ha presentato una vera e propria riforma dell’editoria che il Parlamento è tenuto praticamente ad approvare senza alcuna discussione di merito. Una riforma che non contiene mai il termine cooperativa giornalistica, impresa senza fine di lucro, una riforma lontana da qualsiasi volontà di preservare l’autonomia dell’informazione dagli interessi dei grandi gruppi economici del Paese. Una riforma pensata per tutelare le imprese di maggiori dimensioni. Ma la cosa che più ci lascia sconcertati è che la riforma dell’editoria viene completamente delegata al Governo, escludendo il Parlamento da qualsiasi discussione o dibattito su un tema centrale per la democrazia: il pluralismo nell’informazione. La delusione è ancora maggiore vista la sensibilità che questo Governo aveva sempre dimostrato per l’editoria cooperativa, non profit e di prossimità».
Molto amareggiato è anche il commento di Roberto Paolo, presidente della “File”, Federazione Italiana Liberi Editori: «Il sottosegretario Barachini si è insediato un anno fa. Ci siamo presentati subito, presentammo una piattaforma di proposte sui contributi diretti all’editoria che potesse servire da base di discussione per un confronto. Da un anno aspettiamo di incontrarlo ma non risponde ai nostri solleciti. Sarà troppo impegnato. A fare cosa non è dato sapere, visto che non ha avanzato uno straccio di idea sull’argomento. Ma è grave che nei giorni scorsi, senza confrontarsi con nessuno degli stakeholder, Barachini abbia proposto un articolo nella legge di bilancio che in sostanza delegifica la disciplina del settore, sottraendo al Parlamento la competenza sulla delicatissima materia del pluralismo e rimandando invece, da qui in poi e per sempre, la regolamentazione dei contributi all’editoria al Governo di turno, che potrà agire con propri regolamenti senza passare per i rappresentanti dei cittadini. È un colpo di mano ai limiti della legittimità costituzionale, su cui ci auguriamo intervenga per sventarlo il Presidente della Repubblica, da sempre attento custode dei valori del pluralismo e della democrazia».
Protesta anche Chiara Genisio, vicepresidente della “Fisc”, Federazione italiana settimanali cattolici: «Per rispondere alla crisi che sta vivendo il comparto, il Governo interviene giustamente con un Fondo straordinario per sostenere il settore, ma esclude i giornali no profit e le cooperative dei giornalisti che percepiscono il contributo in base alla legge 198 del 2016. Una scelta incomprensibile, considerato che il Fondo ordinario serviva proprio per offrire pari opportunità, che ora vengono meno per via dell’aiuto straordinario rivolto ai grandi editori. Nei primi mesi di governo il sottosegretario all’Editoria, Alberto Barachini, aveva offerto grande disponibilità all’ascolto e a sostenere la nostra informazione più “di prossimità”, ma a quelle promesse nei mesi seguenti non sono seguite risposte e nuove proposte. Confidiamo che questo atteggiamento sia superato e si apra una stagione di dialogo costruttivo per proseguire a sostenere i nostri giornali che, come ha rimarcato il presidente Mattarella, hanno anche come ruolo quello di “stimolare nei nostri concittadini la capacità critica degli avvenimenti e il senso di comunità, senza il quale un Paese non è più tale”».