Se all’improvviso ti chiedono segni e simboli della mantovanità

MANTOVA  Quella volta mi era capitato a Bolzano, dove lavoravo ai programmi in lingua italiana per la sede regionale della Rai, primi anni Novanta, prima del venticinquennio emiliano-romagnolo. Ma capita anche in queste settimane a Roma tra un corridoio con colleghi e una trattoria con amici: qual è il simbolo della mantovanità? Eh, uno non è mica pronto subito pe runa domanda siffatta e abbastanza complicata pur nella sua semplicità, e qui andiamo o andremmo di ossimori e apparenti contraddizioni.

Allora tra una forchettata di cicoria ripassata e un supplì ben farcito pensa ai segni e ai simboli della cultura, dell’arte, dell’architettura della storia, dei personaggi, e naviga nel cervello, più o meno abilitato, alla ricerca di figure, quadri, storie, momenti, palazzi per trovare quelle tre o quattro parole che possano dimostrare a che sono mantovano, o che qualcosa ho studiato, o almeno letto. E allora si va di Gonzaga e di Isabella d’Este, si prova a citare Virgilio e la sala dei Giganti con Giulio Romano, poi si tenta con Mantegna e arrivi fino a Rigoletto, poi magari cerchi di allargare lo sguardo e ti ricordi che c’è San Benedetto Po con il Polirone e tutta la vicenda matildica, ma cerchi anche di scandagliare vicende di folklore e di ambiente dai raduni di madonnari al parco del Mincio. Una fatica, soprattutto tra una cicoria e un supplì. Poi l’interlocutore medio ti guarda con sorpresa e ti dice: io pensavo i tortelli di zucca.

E ti vien voglia di cambiare tavolo, o sicuramente discorso. Beh, il cibo è simbolo di per sé stesso, di ogni città e di ogni villaggio. In ogni angolo d’Italia e oserei dire del mondo, a suo modo e a modo suo. Ebbene come in questi tempi anche in quelli di trent’anni fa a Bolzano, dove pure si poteva pensare alla connessione storica del monumento ad Andreas Hofer, emblema della battaglia per il Tirolo libero e sepolto a Mantova, e alla fine anche loro, anche i tirolesi, arrivavano ai tortelli. Tutto mondo è paese, si dice. E poi cominciano le domande sui dettagli: la forma del tortello, la chiusura, gli amaretti, spessore della pasta, quale zucca e lì ero forte, ai tempi di Linea Verde, ma adesso mi trovo abbastanza arrugginito in fatto di pieni, ripieni e condimenti.

E sgranano gli occhi, felici e nostalgici, ricordando l’ultima volta che sono venuti a Mantova per una gita o per un concerto o per un appuntamento di lavoro e hanno mangiato i migliori tortelli della loro vita. Va bene, dai. Confesso: io ero e sono il peggior ospite per una tavolata con tortelli, ed era il cruccio di nonna materna Olga Zardi Gandolfi, fornaia, pasticcera e scrupolosa cuciniera di piatti mantovani, piatti con inflessioni o implicazioni sabbionetane essendo lei originaria di Breda Cisoni. Dla Brède. Eh, lì si parla così. Quando arrivava la Vigilia di Natale, accipicchia, la Vigilia di Natale mica una sera qualsiasi, ebbene eccoli i tortelli fatti come Dio comanda e io ne prendevo due o tre, non di più, per assolvere al rito della tradizione e li ricoprivo con due etti di parmigiano grattugiato per attutire il sapore del ripieno di zucca all’amaretto. Più una colata ben intensa di salsa di pomodoro che faceva storcere il naso un po’ a tutti, non solo a nonna.

Segni e simboli della mantovanità. Se poi ti chiedono segni e simboli territoriali ti vien a chiederti a tua volta il grado di intensità della mantovanità in alcuni lembi della provincia mantovana, ma questo è tipico e normale in tutte le aree territoriali ad una certa distanza dal capoluogo. La mantovanità di Felonica è diversa dalla mantovanità di Viadana e di Suzzara, la mantovanità di Castiglione delle Stiviere non è quella di Asola o di Castel Goffredo, pur ad una manciata di chilometri.

Così va il mondo e così va l’autonomia più o meno differenziata dei simboli e dei segni che sono anche la ricchezza del mondo. Diciamocelo. Certo se ti capita di stare in piazza delle Erbe a Mantova e sei nel cuore del cuore dei simboli della mantovanità storica e artistica e magari ci mangi un piatto di tortelli e vivi una mantovanità pluri-piattaforma e multisensoriale a livello esponenziale. Ricordo quella volta con Gianpaolo Pansa, famoso giornalista e scrittore già vicedirettore di settimanali importanti e per tanti anni a la Repubblica, in piazza delle Erbe proprio a tavola a cercare segni e simboli della mantovanità, correva l’anno del Signore 1981, l’anno di passaggio e di trasformazione del giornale.

Ebbene si fece talmente prendere dalla bontà, non solo simbolica, delle tagliatelle mantovane che ne prese tre volte dicendo a giustificazione, che era il suo primo piatto, il secondo e pure il dolce. A proposito, questo del 2024 è stato un settembre mantovano pieno di turisti a Mantova e in giro per la provincia soprattutto laddove ci sono richiami storici e artistici. Dalla letteratura col suo festival a Picasso con la sua mostra al Te, si può dire che Mantova non sfigura certo nella distribuzione del valore turistico e del richiamo culturale. Della serie quando ti dicono come è bella Mantova puoi aggiungerci non solo bella da vedere ma pure attrattiva per le cose da fare e da vivere.

La stagione più bella per Mantova? Molti dicono l’autunno perché la luce si fa più dolce su palazzo Ducale, si allunga l’ombra della Torre su piazza delle Erbe, e poi arrivano le prime nebbioline, forse, che fanno di Mantova una città anche incantata. Quando cadono le foglie e i viali del Te sembrano una scena di un film con l’Esedra che domina il panorama e il bugnato che quasi si protende nell’atmosfera. Una protrusione di Giulio Romano nell’aria virgiliana.

Eh, le stagioni di Mantova, come quelle di Vivaldi. Altri dicono che la più bella stagione di Mantova sia la primavera perché tutto fiorisce e quasi tutto si risveglia e piazza Virgiliana diventa un giardino e il Parco di Viale Piave si fa più rigoglioso. Ci sta perché a suo tempo si parlava, troppo superficialmente, anche di “Mantova bella addormentata”, cioè di una principessa bellissima ma non così viva e vitale come certe altre città, per cui il risveglio primaverile non era fuori luogo, e a volte più che auspicabile.  Comunque, dai, vuoi mettere un piatto di tortelli.