Eccoli gli anni di Suzzara: cominciano alle medie inferiori, una tappa non da poco per un bambino di provincia, della campagna sperduta tra Zara e il Po. E il primo impatto è stato un cartello stradale. Suzzara Città del Premio. Con la “P” maiuscola. Nessuno mi aveva detto che cos’era quel premio, ma io già pensavo fosse una cosa importante di cui un giorno mi sarei fors’anche occupato. E fu così che nei primi temi della seconda media veniva fuori quella passione del racconto che mi avrebbe portato a fare un mestiere che credevo riservato solo a quelli di città, di Milano o Roma, il giornalista. La mia Suzzara comincia in una classe tutta vetri e odor di nuovo, vicino alla campagna e mi pareva di essere un po’ a casa e cominciavo a fare il pendolare, e a vedere gente nuova, i professori che sostituivano la maestra, allora unica, delle elementari. La mia Suzzara di quei primi Anni Settanta è la Suzzara delle corriere e dei primi compiti in classe. Una prova sconosciuta fino a quel momento. Ricordo che fu il professor Carlo Prandi, che mi insegnava matematica, a prenderla alla larga e a dirci una mattina: lo sapete ragazzi che qui ci sono delle prove che si chiamano verifiche o compiti in classe per misurare la vostra preparazione. Una forma soft della pagella della vita. La mia Suzzara era anche sua sorella, la profe di italiano, Anna Prandi Bondioli che mi ha insegnato a leggere un libro e a capire una frase, dietro le righe. E ad apprezzare un autore dietro una pagina. Chissà cosa penserebbe di me adesso che ho fatto pure un libro di poesie con una prefazione di una scrittrice e poetessa come la Fernanda Pivano?! La mia Suzzara ha intersecato subito un’altra figura che mi ha plasmato nella mia passione per il francese e la letteratura d’Oltralpe, l’ineffabile e umanissima profe di francese, Gabriella Fiaccadori, detta Lella. Non so come non so perché aveva apprezzato il mio accento e la mia predisposizione alla lingua e mi portava persino nell’altra sezione a fare esercizi alla lavagna, e a spiegare che c’era differenza tra la viande e le bouillon. La mia Suzzara erano le maratone del sabato pomeriggio del prof. Antenore Marmiroli, cravattino quasi western e vestito di grisaglia anche quando tirava il vento africano, che incitava tutti, predisposti e no, ad arrivare fino alla fine, e c’era il bicchiere di te tiepido. La mia Suzzara dopo le medie mi era diventata più familiare e meno esclusivamente scolastica, merito di don Lino che era anche il mio prof di religione al liceo e che ci faceva sentire già grandi a 15 anni con le sue introduzioni a questo o a quel tema filosofico, sociologico, civico, umano. Ed era diventata anche più politica la mia Suzzara perché merito o colpa dei decreti delegati ero diventato componente del consiglio scolastico distrettuale e lì ho avuto i primi insegnamenti diretti di come si lavora in un consiglio, di cosa sono le delibere, di come i formano i convincimenti politico sociali economici, di come si tratta fra parti che la pensano diversamente. Lunghe serate di giunta e di consiglio, sotto la guida paziente e accorta del professor Paolo Bianchi a decidere di insediamenti scolastici, diritto allo studio, tempo pieno e tempo liberato. Con Ezio Frontelli, Mentore Bertazzoni, Alfredo Calendi e via ricordando.
La mia Suzzara era anche fatta di improvvisi scioperi e poi tutti in assemblea alla sala civica Montecchi a discutere di futuro incerto e di diritti violati, robe da quindicenni impegnati e voglia di muretto lontano dalla grammatica, e però anche delle scrupolose spiegazioni dei personaggi della divina Commedia del professor Mauro Lasagna, mai visto senza un libro in mano. E matematica e fisica spiegate dalla professoressa Celestina Bandioli Mazzocchi. Per anni la mia Suzzara aveva centro in via Virgilio, liceo Belfiore, ex convento diventato scuola, mura spesse e aria di campus di studi quasi come un’accademia. La campanella, le auto dei prof parcheggiate lì davanti, l’incidente all’incrocio terribile tra la Statale e la strada per Riva, e il fornaio delle schiacciatine lì dietro verso l’incrocio. Poi la mia Suzzara è diventata quella dei giornalisti che lì lavoravano: di Bruno Freddi che vedevo prendere appunti ad ogni manifestazione e in ogni consiglio, e di Giordano Cucconi con il registratore a tracolla e il microfono sempre in mano, e i giovanissimi Vanni Buttasi, Stefano Alberini, Mauro Pinotti. Non avevo scampo nella scelta del mestiere con quel modello di scrupolosa passione. La voglia di raccontare, l’impegno della testimonianza, la gioia della partecipazione, il bello di esserci. Così tra un esame e l’altro mi fiondavo non più al mercato ma a Radio Zero, a raccontar notizie, a leggere elenchi di commissioni d’esame, a intervistare questo o quello.
Da quella piazza in cui prendevo la corriera blu che mi riportava a casa in prima media, alla piazza delle manifestazioni in cui andavo con la prima macchina, autonomamente, una mini-minor color caffè latte. Ero diventato grandicello.
La mia Suzzara è stata una stagione a parte. Una stagione a parte, una corsa di otto anni verso la maturità, la scoperta dei viali alberati, la città del traffico fermo ai semafori e il tempo della corriera: sono gli anni suzzaresi, gli anni delle medie e del liceo, gli anni delle classi e dei compagni e delle compagne di banco che non dimentichi più. Otto anni mica pochi, sono più o meno un decimo della vita ed essendo gli anni del secondo decennio, di una vita che comincia a diventare adulta, sono anni pesanti, assai pesanti. Dagli undici ai diciotto, dai dodici ai diciannove, una rivoluzione. Le medie “Pascoli”, quelle nuove, quelle lì davanti all’OM, quelle che accipicchia quanta gente, si arrivava alla sezione H che per tre classi embè faceva 27 classi, aule ovunque attorno a quei terrazzi quadrangolari dove sopra vedevi sotto e dove da sotto non sempre vedevi sopra. Acciaio e cristalli era una media ai miei occhi un po’ scuola americana, open molto open e molto luminosa. Osservavo il passo pacato e quasi felpato delle presidi dei miei anni: la professoressa Franca Sagri, dallo sguardo materno e al contempo riflessivo e determinato; la professoressa Ida Peroni Baraldi, minuta e ai miei occhi ieratica. La corriera da prendere per andare a Suzzara, ad esempio. Un rito. Un rito di passaggio si direbbe in antropologia. Chi va a scuola da pendolare con bus e corriere dovrebbe avere già un bonus nella valutazione, pensavo. Vuoi mettere quelli che abitano in via Toti o in viale Gramsci possono arrivare a scuola in cinque minuti in bicicletta, io, noi, quelli di campagna, dovevano, dovevamo alzarci un’ora prima. Trovare il posto in corriera, pigiarci tra borse e sedili e a volte stare pure in piedi quando c’era il pienone. E poi correre in piazza Luppi ad aspettare la corriera che solcava piazza Garibaldi, allora aperta, apertissima, al traffico regolare. Che stagione quella di Suzzara!