I figli e il fardello dei padri: vogliamo essere come loro o ne temiamo i difetti?

MANTOVA Dentro ogni singolo padre esiste un primo accenno di quello che sono o saranno i figli? È questo il filo comune che unisce il romanzo di Anna Giurickovic Dato, “Il grande me”, e l’opera prima di Francesco Bolognesi, “Dimenticare nostro padre”, presentati da Marcello Fois a Palazzo San Sebastiano. In comune i due libri hanno il rapporto con la figura paterna visto come redimibile. Differenti le ambientazioni: una famiglia borghese cittadina per la scrittrice, la provincia per il neo scrittore.
Anna Giurickovic Dato, dopo “La figlia femmina” uscito tre anni fa, prosegue così il suo sguardo sull’istituzione familiare. «Sono interessata alle disfunzioni familiari sia per motivi autobiografici sia perché la famiglia è la prima entità di socializzazione», ha dichiarato la scrittrice catanese, «I protagonisti dei due libri sono comunque due padri completamente differenti. Il rapporto madre-figlia invece è centrale nel primo e completamente assente nel secondo». Sulla copertina del libro una nuca. È la rievocazione della leggenda dello schiavo-messaggero che porta scritto sulla propria nuca rasata il messaggio che avrebbe dovuto recapitare senza poterlo leggere. «Con questa leggenda Lacan definisce la vita umana», ha spiegato la scrittrice, «Molti di noi portano sulle proprie nuche gli auspici e i desideri dei padri senza mai poterli leggere direttamente».
Nel caso del padre malato terminale, protagonista de “Il grande me”, l’auspicio è che i suoi tre figli sappiano cantare e ognuno dei tre risponde a suo modo a questo desiderio.
Protagonisti dell’esordio letterario di Bolognesi sono invece degli adolescenti del Duemila alle prese con il gioco del calcio. «I ragazzi hanno solo un soprannome, non vengono mai descritti fisicamente, sono un gruppo e in ognuno di loro c’è qualcosa di me», ha detto lo scrittore ferrarese, arrivato in finale al Premio Calvino, «La rivalità per il terreno di gioco li vede contrapposti a un gruppo di ragazzi pachistani che vorrebbero utilizzarlo per giocare a cricket». È qui entra in gioco (il calcio come metafora di vita) il lascito paterno. «Un figlio è anche portatore di quello che gli viene insegnato dal padre: se non gli viene spiegata la tolleranza sarà intollerante», ha proseguito Bolognesi, «La risposta per una passione del calcio imposta dal padre sarebbe quella di giocare a cricket invece, nel finale, i ragazzi affronteranno i pachistani a pallone. Vogliamo essere come i nostri padri oppure abbiamo paura di diventare come loro rispetto ai loro difetti? Ce la possiamo fare o invece siamo destinati a portarceli dietro?». Ai lettori del libro la risposta di ciascuno.
Tiziana Pikler