Quei versi sportivi di Cattafesta Il nostro poetino della domenica

MANTOVA C’erano due Cattafesta al giornale dei miei tempi,
anni Ottanta. C’era il Mario del notiziario, quello che con
pazienza e diligenza, tagliava metri carta con le notizie delle
agenzie appena battute dalle telescriventi, e c’era il Mario della
domenica o del giorno in cui giocava il Mantova Calcio, che
tornava in redazione dopo la partita e scriveva l’ampio e lungo
pezzo di commento alle imprese calcistiche virgiliane, compreso
un componimento in rima che ha sempre avuto un grande
successo di critica e di pubblico: da lì il titolo per il professor
Mario Cattafesta, oltre che proprio di “professore” anche di
“poetino”. Dentro e fuori il giornale.
Arte e storia, libri e lingua, Greci e vino, Castellaro Lagusello
e la bicicletta, il calcio e il costume nella larga e profonda
produzione del giornalista e scrittore Cattafesta. Che era un
artista anche nei modi e nel metodo: prima di scrivere declamava,
provava le rime, parlava con sé stesso e con i lettori
ancor prima di comporre righe o suoni.
La sua scrivania al notiziario, nella stanza vicina, allora in via
Fratelli Bandiera 32, a quella del direttore, era confinante con
quella del giornalista addetto alle cronache della provincia,
all’epoca Piero Marcolini, da Verona. Spesso quando non c’era
ressa in redazione raccontava della sua passione per l’eti –
mologia, soprattutto per l’origine dei nomi dei luoghi. Un
pomeriggio fece a noi, pochi fortunati di turno, una lezione su
Olfino e Castellaro Lagusello. Un professore a tutto tondo per
noi, appunto, che gli stavamo vicini e forse pure un po’
simpatici. Cesare De Agostini nella scrivania a fianco sorrideva
sotto i baffi. Perché i baffi Cesare ce li aveva davvero. E poi il
tutto finiva con uno sberleffo mantovano, mentre qualcuno da
fuori chiedeva: permesso, è qui che portano gli occhiali persi in
città?
Olfino, Castellaro, Lagusello, Monzambano: per me giovane
praticante della Bassa quei nomi evocavano luoghi esotici quasi
paesi e città del Sud America non dell’Alto Mantovano, dei
posti che Mario Cattafesta amava e citava più di altri. Ol-fino,
Mons Zambanus. E via di ricerca, mentale e fantastica.
Ogni tanto davo una mano al Piero Marcolini per passare i
pezzi che i corrispondenti mandavano copiosi e rigogliosi da
ogni comune e frazione del territorio. Mi capitava quindi di
convivere qualche ora con Mario Cattafesta e con l’altro collega
che seguiva interni ed esteri ma anche esperto notissimo di
automobilismo Cesare De Agostini. La stanza del notiziario era
attigua al locale in cui c’erano le telescriventi: il loro rumore
scandiva la giornata. Il rapporto con le telescriventi, e quindi
con la massa di notizie battute sui vari rotoli di carta che
andavano sempre sorvegliati e cambiati era quasi fisico, d’amo –
rosi sensi: beh in fondo quella era la fonte delle fonti, senza quei
rotoli Italia ed Esteri non arrivavano. Mario Cattafesta e Cesare
De Agositni e poi il caposervizio Lillo Aldegheri, che veniva da
Verona, lavoravano ognuno per proprio conto ma anche insieme
scambiando battute con codici culturali tutti loro, a volte
anche semplici emissioni fonetiche, ovviamente in cadenza
mantovana o scaligera.
Colla e forbici. Forbici sempre a portata di mano e tanta colla
per mettere in fila quello che le telescriventi “ticchettavano ” in
orari diversi. C’era da stare attenti a seguire la Cambogia e
l’Onu e non mischiare i pezzi di agenzia con il Governo Craxi o
le indagini sulla strage di Bologna. Lavoro che Mario Cattafesta
faceva con dedizione e attenzione massima come se
firmasse ogni lavoro. Poi la lettura e la bozza di titolo, due righe,
dure righe e un occhiello, oppure una riga e un sommario. Su
carta libera, perché non c’erano ancora i moduli che da lì a poco
avrebbero costretto la creatività per i titoli in format e numeri di
battute. Il Mario della domenica era più sciolto, in coppia con
Alberto Gazzoli, scriveva un centinaio di righe e forse più di
commento e versi dopo la partita. Diventava il Poetino. Se non
c’era troppa gente salutava con citazioni letterarie e storiche, a
cui rispondevano a seconda della presenza Luciano Spagna o
Carlo Accorsi, con quelle intese a sguardi che solo in certi team
puoi vivere e capire davvero.
Lui, gli appunti e la macchina per scrivere: anche se attorno
c’era il mondo che faceva rumore, code di inserzionisti per le
necrologie della giornata di festa, l’angolo della cronaca con i
soliti incidenti stradali, lui Mario si isolava, era come se fosse
avvolto in una atmosfera a parte e componeva. Nei rari momenti
di silenzio si sentiva il bisbiglio di una frase. Poesia
sussurrata nella poesia scritta. Mario Cattafesta ha scritto libri,
epico il suo “Come bevevano gli antichi”, e condotto seminari,
presentato conferenze e animato dibattiti. Nei momenti ufficiali
indossava giacche ufficiali, lui che di solito girava in
maglietta anche a maniche corte, anche d’inverno quando a
Mantova la temperatura era meno 2 o meno 4. Mario era fatto
così. E a volte per presentazioni pubbliche metteva al collo un
quasi ottocentesco aristocratico foulard.
Una notte in tipografia quando era di turno a chiudere la parte
delle pagine nazionali ed io quelle di cronaca locale mi disse
una frase che mi viene spesso in mente. “Binacchi fai bene a
specializzarti nell’informazione agricola, perché nel nostro
mestiere conta molto la specializzazione. Chi sa tutto, o sembra
sapere tutto di un argomento o di un settore, al murirà mai ad
fam ”. E si accarezzava la barba con la mano destra, mentre dava
l’ultimo sguardo ai titoli di prima pagina, a pochi secondi dalla
partenza per la rotativa.

Fabrizio Binacchi