MONACO L’opera al nero. Nella rodata regia tutta in sottrazione firmata da Jürgen Rose, nere erano le pareti, (prevalentemente) neri i costumi, nera l’aria che gravava, con la sua cappa densa, sui destini di tutti e di ciascuno. Kolossal mancato intinto nel pennino schilleriano, perennemente in bilico tra grand opéra e una più stringata soluzione nostrana, Don Carlo è forse la più complessa tra le ventisette creature verdiane. Monumentale nelle dimensioni, tormentata nella stesura – nata per il pubblico francese, poi, tra tagli e rimaneggiamenti, giunta a quello italiano – intimamente sfuggente, nell’intimismo covante sotto l’armatura del suo marmoreo impianto da polpettone storico. Celebri gli scivoloni di tanti ascoltatori anche accorti; su tutti, clamoroso rimane quello di Bizet, di fronte all’incomprensibile “wagnerismo” di questo Verdi. Lo scorso 31 luglio, nella versione in cinque atti in lingua italiana rappresentata per la prima volta al Royal Italian Opera (oggi divenuto Royal Opera House) di Londra, Don Carlo ha chiuso il sipario della Stagione del Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera, consacrando definitivamente l’astro di Daniele Rustioni come principale Direttore ospite. Applausi torrenziali hanno salutato l’ultima recita di una produzione che ha trovato nel direttore milanese, talento precoce e una carriera già solidamente radicata nei maggiori teatri del mondo, una personalità sempre più stagliata e autorevole capace di restituire, in una filigrana finissima e straordinariamente naturale, pagine di intatta, primigenia forza. Era stato così nell’urticante Aida, la sera prima, è stato così in Don Carlo. Cavalcato con braccio saldo e duttile, in perfetta sintonia con il lussureggiante strumento orchestrale a sua disposizione da cui otteneva, senza apparente sforzo, un impasto corposo, trascinante, acutamente drammatico, intriso di sacrale austerità ma anche di spettacolare scintillio, come si conviene ad un’opera oscillante tra le dimensioni grandeur e scarna, ascetica meditazione. Un affresco steso con bacchetta flamboyante e con duplice pennello: gli squarci di colore a grana densa a dire la scorza esterna del racconto, i rovelli dell’anima ottenuti con precisione miniaturistica, a raccontare, in buca prima ancora che in scena, il peso della storia vincente senza partita alcuna sulle fragili, ingenue spinte del cuore, sul desiderio di identità, prima ancora che di amore, di libertà prima ancora che di felicità. Sul crinale tra eternità e istante, ragion di stato e personale sentimento. Dalla fitta trama verdiana, lucido, rapinoso, sobriamente seduttivo, Rustioni estraeva gli elementi fondanti e li ergeva a punti focali della sua tela: l’ossatura contrappuntistica, la vaga, tinta cangiante, ammiccante al colore locale come nella canzone del velo di Eboli, ma soprattutto un incombente, a tratti opprimente senso di inanità, di vano sforzo reso ancor più doloroso nello spasmodico contrasto che si evinceva nelle scene corali, in cui ognuno era persona e personaggio della propria individuale messa in scena, maschera composta e vinta in un copione già scritto. Ma era soprattutto la cifra della pietà, una pietà mai pienamente affiorante ma piuttosto controluce, ad accompagnare con pudore il cammino di una storia a più voci scritta all’ombra dei padri, della fede e della Storia stessa, a rendere questo don Carlo una riflessione senza tempo, necessaria e squisitamente attuale, una rappresentazione fedele della topografia dell’animo umano. Le scene di Franziska Severin racchiudevano l’intero reticolo drammaturgico in un cubo dalle geometrie asfittiche, trafitto da improvvisi lampi di luce provenienti da porte che si aprivano a taglio vivo, a sorpresa, dalle pareti. Un cubo senza scampo, eternamente uguale a sé stesso, pneumatico nel vuoto che lo separa dal refolo dei giardini, dall’alito della vita. Un cubo fatto incubo in cui è la polvere a scandire il tarlo dei giorni, a ricordarti che vita e potere sono effimeri, come lo era il passaggio solenne della corte in parata, come lo erano le fiamme levatesi sui corpi martoriati di povere donne accusate di eresia, esposte nella loro desolata nudità ma protette dal pietoso chiaroscuro delle luci. Anime vaganti, querule, appassionate, affamate di vita, destinate al nulla. Come a dire, non c’è scampo, non c’è altro. L’avello è già lì, nel presente, nell’aria densa della Spagna remota, immobile come un quadro in posa, nel suo non luogo. Nel cast, struggente nella virile sobrietà che si conviene alla sua statura, era il Filippo II di John Releya, registro centrale vellutato e magnifico controllo di ogni corda espressiva, insieme ad uno svettante Boris Pinkhasovich, Rodrigo dallo smalto luminoso e ben profilato nell’insinuante molteplicità delle sue sfaccettature nel solco delle quali si innestano le principali dinamiche della vicenda. Charles Castronovo, con intelligenza e pregevole misura, vestiva i panni di un Don Carlo perfettamente credibile nell’alone di intima fragilità, di tormento e di rancore che accompagna la sua parabola. Giustamente spigoloso il Grande Inquisitore di Dmitry Ulyanov, possente quanto impietoso nel corpo a corpo con Filippo. Nel comparto femminile, insieme alla prova in crescendo di Maria Agresta, Elisabetta puntualissima per intonazione e raffinatezza a scolpire una regina pallida, intimamente schiacciata dalle sue stesse speranze, strepitosa sin dal primo momento era la principessa di Eboli di Clémentine Margaine, grande agilità, guizzo ed incursioni drammatiche come stilettate. A completare il cast, il pregevole monaco di Alexander Kὂpeczi. Applausi vivissimi per un successo annunciato.
Elide Bergamaschi