CREMONA Non stupisce che siano pagine come queste ad aver dato fiato e sogni al nostro Risorgimento. Accenti marziali, sbozzati con tratto veloce e pennino appuntito, da cui affiorano arie dal sapore arioso, intimo, arcitaliano. La belliniana Norma che in questi mesi è di giro nei teatri di provincia lombardi – prima a Brescia poi, lo scorso week end, al Ponchielli di Cremona – è un’opera che non smette di intimorire pubblico e interpreti per durata e complessità, ma anche di offrire lati inediti. Un kolossal arduo e mai sufficientemente esplorato che – grazie al felice binomio di Elena Barbalich e del giovane Alessandro Bonato, rispettivamente a firma di regia e di conduzione – diventa, in questa formula targata OperaLombardia, spettacolo al quadrato: teso, trepidante, magnifico. Merito di una buca felicissima animata dal giovane direttore veronese, sciamanico nel muovere con intelligenza, ispirazione, temperamento, i fili del racconto tenendo insieme, con straordinaria sicurezza per i suoi 27 anni, rigore e morbidezza, profondità ed incalzare narrativo. E merito di una scena allo stesso modo agile, serrata, evocativa senza esibire un solo dettaglio di troppo. A partire dalla prima scena, in cui la sagoma di una cerva con il corpo di una donna viene ferita a morte, colpita da cacciatori che altro non sono che un corteo di vestali pronte, in una bruma grigia incolore, a bere il rossissimo sangue ancora caldo. Anima e sesso, la brutalità della guerra (ma anche dell’istinto vitale) e l’innocenza di un cuore puro. Qui i Druidi sono creature fatte della stessa materia del paesaggio che li avvolge: stagliati contro un cielo color ghiaccio, così freddo e austero da sembrare un paesaggio lunare, profilato dal neon che delinea il perimetro della scena e che trascolora con essa, da neutro a oro, a drammatico carminio. La selva e il tempio da un lato, la casa della sacerdotessa dall’altro sono universi attigui eppure paralleli, divisi da pannelli mobili che li rendono spazi non comunicanti, destinati a rimanere inconciliabili. In questa impossibilità di essere l’una e l’altra cosa, nella divaricazione tra l’essere e il dover essere, Norma è figura (ed opera) senza tempo, eternamente attuale, tragicamente possibile, come sottolineano i bei costumi di Nicolao Atelier. Il suo apparire su un piedistallo, ieratica, magnifica, è anche il riapparire della cerva, decapitata e ridotta a scheletro, memento mori, tragico presagio di ciò che sarà. L’intoccabile verrà brutalmente contaminata dalle passioni, dal rimorso, dall’espiazione. Martina Gresia, chiamata a sostituire in corsa Lidia Fridman, ha nelle sue corde il dono di saper rendere, a soli 25 anni, l’anima di questa intricata, contraddittoria complessità; il suo atteso Casta Diva – con il cerchio luminoso al neon, mobile, arcano, tra cielo e terra, quale leitmotiv – è un’invocazione alla luna di raro intimismo, disegnata con un pennello a punta fine sul tappeto di un’orchestra plastica, vaporosa, pulsante; una preghiera di toccante adesione emotiva, già increspata da un velo di tormentata tristezza. Il biglietto da visita di un talento cristallino che, nel corso degli atti, non appare mai a disagio rispetto ad una scrittura da far tremare i polsi. Ne sortisce un personaggio sfaccettato, smagliante nella duttile vocalità che chiede guizzo, corposità, incisiva articolazione. La Grisia lo fa esibendo una vocalità altrettanto regale per ampiezza, duttilità, espressività in ogni scavo. Magnifica, a questo proposito, la scena del lampo infanticida che attraversa il cuore della sacerdotessa, ben risolto dalla regista con uno sguardo della culla vista dall’alto, come da una remota conchiglia, sul sonno degli innocenti. La radice del dramma è tutta qui. Norma è creatura che non sa uccidere. Alla fine, consegnandosi al suo popolo per consentirgli di lavare le macchie del suo peccato, Norma si presenterà vestita della stessa foggia di Pollione. Negli abiti di pelle, nell’aggressività dell’aspetto, la prova della sua colpa, della sua appartenenza al nemico del suo popolo. Accanto alla giovane protagonista, a convincere senza esitazioni era anche il Pollione elegante e nobilmente muscolare di Antonio Corianò, perfetto vertice di arroganza e di egoismo nel triangolo amoroso ordito con la sacerdotessa e con l’innocente Adalgisa, qui interpretata da una Asude Karayavuz che convince e commuove a sua volta per le pieghe che, in un timbro scuro ma duttilissimo, anche nella tessitura più alta, sa trovare nel suo drammatico personaggio. Una lezione di teatro, di scavo introspettivo nelle ragioni della parola fatta canto, è il dialogo tra le due donne, nel secondo atto, con l’orchestra sferzata da Bonato mentre la confessione dell’amore tra la giovane ed il soldato romano fa precipitare il cielo nel cuore di Norma. Accanto a questo trittico di eccellenze, comprimari di lusso erano l’Oroveso di Alessandro Spina, la Clotilde di Benedetta Mazzetto e il Flavio di Raffaele Feo. Applausi scroscianti da parte del pubblico – stranamente contenuto, rispetto al tradizionale tutto esaurito. Le prossime recite saranno il 14 e 16 ottobre a Como, il 21 e 23 a Pavia. Chi può, non manchi. Ad attenderlo ci sono i migliori talenti della prossima generazione, e un’opera che non smette di parlarci di chi siamo (e di chi mai saremo).
Elide Bergamaschi